La Catalogna e la via indipendentista

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La Catalogna spagnola vota in favore del referendum per la proclamazione dell’indipendenza. Una regione fortemente indebitata che prova a salvarsi prendendo la strada dell’autodeterminazione e del divorzio da Madrid. Riportiamo di seguito l’approfondita analisi della situazione di Limes.

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A Barcellona la crisi rafforza le pulsioni identitarie: con le elezioni del 25 novembre potrebbe avviarsi un processo di separazione dalla Spagna. La nascita di uno Stato-nazione catalano sarebbe però un boomerang: meglio accontentarsi dell’autonomia. Sarà decisiva CiU.

Fino a poco tempo fa sarebbe stato difficile prevedere che un processo del genere avrebbe riguardato la Catalogna. Si tratta di un territorio (oggi una “comunità autonoma”) in cui la contesa identitaria non ha mai assunto la dimensione violenta caratteristica di altre aree, come il Paese Basco e l’Irlanda del Nord. Secondo vari sondaggi la maggioranza dei catalani, in passato distaccata al riguardo, al momento considera l’indipendenza dalla Spagna come l’opzione migliore.

L’11 settembre, festività nazionale catalana, oltre un milione di persone ha manifestato a Barcellona con lo slogan “Catalogna, uno Stato d’Europa”: è un avvenimento tra i più rilevanti dell’intera storia di Spagna. Grazie alla legittimazione conferita da questo evento sensazionale, Convergència i Unió (CiU), il partito nazionalista liberal-conservatore che governa la regione, ha chiamato la cittadinanza al voto anticipato (25 novembre). Obiettivo: ottenere la maggioranza assoluta per dirigere al meglio il delicato passaggio politico, che dovrà essere caratterizzato dalla stesura di una carta costituzionale e da un referendum sull’autodeterminazione. Oltre la metà della popolazione, secondo i sondaggi, approva questa road map.

Il malessere catalano, anche se finora non si era mai espresso così massicciamente in favore di un divorzio da Madrid, ha le sue radici in alcuni nodi irrisolti della politica e della stessa struttura territoriale spagnola. Dopo quarant’anni di dittatura franchista ultracentralista, la costituzione del 1978 creò uno “Stato delle autonomie” che riconobbe le diverse identità presenti nel paese, disinnescando le spinte centrifughe.

Secondo il principio del café para todos non solo le regioni storiche (Catalogna, Paese Basco, Galizia e più tardi Andalusia), ma tutte le 17 Comunità autonome in cui è divisa la Spagna godono di estese giurisdizioni, più altre trasferibili in seguito dallo Stato. Ogni Comunità è regolata da uno statuto, che funge un po’ da “costituzione” locale.

Retta sin dalle prime elezioni democratiche (1980) da CiU e dallo storico leader Jordi Puyol, la generalitat (l’amministrazione) della Catalogna è stata capace di conquistare la gestione di materie come la pubblica sicurezza e l’istruzione: attualmente dà lavoro a oltre 200 mila funzionari. CiU ha saputo far valere il suo piccolo peso al parlamento di Madrid, offrendo negli anni pragmatico sostegno a governi dell’uno o dell’altro colore in cambio di risorse, investimenti, trasferimenti di competenze. La rivendicazione indipendentista era esclusiva di un’altra formazione politica, radicale di sinistra: Esquerra republicana de Catalunya.

L’egemonia di CiU venne rotta nel 2003: poco prima del voto regionale di quell’anno, il segretario del Partito socialista spagnolo (Psoe) José Luis Rodríguez Zapatero si impegnò ad accettare, se fosse stato eletto premier, qualsiasi modifica allo Statuto catalano che il parlamento di Barcellona avesse approvato. I catalani riconoscenti portarono i socialisti al governo della loro regione e li premiarono con una valanga di voti anche l’anno successivo, alle elezioni nazionali. L’estatut de Catalunya fu modificato e la maggioranza socialista a Madrid lo ratificò nel 2006. Il Partido Popular (Pp), principale forza di opposizione, ricorse alla Corte costituzionale contro il nuovo testo. Non solo la Catalogna vi si autodefiniva “nazione”, ma si attribuiva anche il potere giudiziario e il potere legislativo in materia fiscale. L’alta corte, nel 2010, nonostante una maggioranza di membri di nomina socialista, bocciò proprio questi articoli; Zapatero, alle prese con la crisi, non spese una parola per l’estatut. I catalani, infuriati, scesero già allora in piazza a centinaia di migliaia (con lo slogan “siamo una nazione”) e alle successive elezioni punirono i socialisti col peggior risultato di sempre, riportando al governo regionale CiU.

La Catalogna non vive un momento felice: la durissima congiuntura spagnola non l’ha risparmiata. Già negli anni passati, era andata perdendo centralità economica, cedendo lo scettro di area più produttiva di Spagna al Paese Basco e a Madrid. Oggi è la Comunità autonoma più indebitata ed è stata costretta a chiedere al governo 5 miliardi per non finire in bancarotta. La disoccupazione è al 22% (leggermente inferiore alla media nazionale) e tra i giovani supera la metà della forza lavoro.

Nel discorso di Mas, colpevole della situazione economica (e quindi indirettamente dei pesantissimi tagli operati dal governo di CiU) e responsabile del debito è il contributo eccessivo versato allo Stato centrale e la scarsità di investimenti pubblici nella regione. Se potessimo gestire da soli il nostro gettito fiscale come i baschi e i navarri – dicono da Barcellona riferendosi a un antico privilegio ancora in vigore – potremmo facilmente risanare il bilancio. I catalani sono d’accordo: secondo i sondaggi, se il regime fiscale fosse modificato rinuncerebbero a pretendere d’indipendenza.

A Madrid, dove nel frattempo è tornato al governo il Pp di Mariano Rajoy, non vogliono nemmeno sentir parlare di negoziati in questo senso. Intanto perchè proprio i popolari, tradizionalmente centralisti, disapprovavano l’estatut che istituiva l’autonomia fiscale: la destra del partito vuole che si mantenga il pugno di ferro; un’eccessiva arrendevolezza incoraggerebbe poi le forze nazionaliste presenti in altre regioni. Infine, la Spagna vuole a tutti i costi mostrarsi stabile sullo scenario internazonale. Il “no” di Rajoy a Mas, che è la causa diretta del successo della manifestazione dell’11 settembre, è quindi piuttosto motivato: cambierebbe solo dopo una lunga e complessa trattativa.

Quale dovrebbe essere l’oggetto di questa trattativa? L’ottenimento dell’autonomia fiscale è tutt’altro che scontato. Il governo nazionale punta anzi a una ricentralizzazione delle competenze concesse dallo “Stato delle autonomie”. Il nuovo regime sarebbe inoltre poco compatibile col principio di armonizzazione fiscale ora in voga a Bruxelles. Infine – soprattutto se la svolta sovranista di CiU dovesse rivelarsi strumentale – i termini dello scambio potrebbero dimostrarsi squilibrati: Rajoy non ha bisogno di appoggi esterni godendo già di maggioranza assoluta: potrebbe agire in modo tale da lasciare ai politici catalani la responsabilità di rovesciare il tavolo e “rompere la Spagna”.

L’independència, infatti, infervora gli animi e le gradinate dello stadio Camp Nou di Barcellona, ma presuppone una serie di problemi non trascurabili. Il nuovo stato nascerebbe fuori dall’Ue: potrebbe entrarci solo con l’accordo unanime dei membri. Come si comporterebbe in questo caso Madrid? Comunque, per un periodo negoziale di durata non prevedibile, merci e capitali catalani sarebbero esclusi dalla libera circolazione, perdendo l’accesso al mercato spagnolo. Ecco perchè le imprese e le banche di Barcellona e dintorni preferiscono la ricerca di un compromesso. Lo stesso Mas non manca di puntualizzare come la sovranità della Catalogna non debba consistere in un “addio alla Spagna”.

L’autodeterminazione catalana può ancora essere declinata all’interno del quadro statale spagnolo. Alcuni settori nazionalisti, così come buona parte dei socialisti, appoggiano una soluzione federalista. Il vantaggio di mandare in soffitta lo “Stato delle Autonomie” si accompagna però alla difficoltà di costruire un nuovo sistema: alcuni (quanti?) “Stati” federali compresi all’interno della Spagna, a sua volta suddivisa in altre regioni con meno competenze. Un federalismo asimmetrico, dunque, perchè non tutte le Comunità autonome hanno la volontà o la capacità di trasformarsi in una specie di Land tedesco.

Dare una forma politica alle tante eredità e particolarità culturali presenti nella penisola iberica è sempre stato un compito arduo. La causa storica dell’attuale spinta separatista catalana, oltre che nella crisi economica, può essere individuata nella fine del terrorismo indipendentista basco: da quando l’Eta non uccide più, anche un partito moderato (e il grosso dell’opinione pubblica) può parlare di secessione senza essere associato a una banda armata. D’altronde, tra Regno Unito e Scozia si è assistito a una dinamica simile, resa possibile dalla fine dell’Ira.

I tentativi catalani di approfondire l’autonomia da Madrid sono stati numerosi durante i secoli, e spesso decisamente sfortunati. Resta però da chiedersi quanto senso abbia la nascita di un nuovo Stato nazione in Europa, quando il confronto geopolitico del nostro continente avviene con entità come Cina, Stati Uniti, Russia o Brasile. Nella stessa Unione Europea, le capitali tendono a pedere il loro potere decisionale in favore di centri alternativi come Francoforte, Bruxelles o Berlino.

La Catalogna sarebbe dunque davvero indipendente? In ogni caso, i suoi abitanti non vogliono rinunciare alla loro sospirata autodeterminazione.

http://temi.repubblica.it/limes/i-non-trascurabili-problemi-di-una-catalogna-indipendente/38812

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