Quando le rovine diventano macerie

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Presso il Museo Egizio di Torino è possibile visitare fino al prossimo 9 settembre un’esposizione temporanea, Anche le statue muoiono, che affronta il tema della sistematica distruzione del patrimonio storico-artistico nelle aree di conflitto del Vicino Oriente (Siria e Iraq, in particolare), ma che, anche grazie al catalogo di accompagnamento con contributi di Salvatore Settis, Christian Greco, Paolo Del Vesco, Irene Calderoni e altri, invita a riflettere sul complesso rapporto che la contemporaneità intrattiene con passato. La mostra, per completezza d’informazione, è inserita nel calendario italiano dell’Anno Europeo del Patrimonio 2018 e coinvolge anche altre istituzioni museali torinesi (la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e i Musei Reali di Torino). 
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  • xStatua di Upuautemhat, legno, Medio Regno, XII dinastia, da Assiut, patrimonio del Museo Egizio di Torino.
  • xStatua di Upuautemhat, particolare del volto

>In visita al Museo Egizio

I miei studenti, in viaggio di istruzione a Torino e in visita all’Egizio, vi hanno dedicato un’attenzione imprevista. Dapprima si sono soffermati su alcuni pezzi antichi: la statua da Assiut di Upuautemhat, dignitario del Medio Regno (1900 a.C. circa), cui ignoti saccheggiatori hanno sfregiato il volto per privarlo degli occhi realizzati in materiali preziosi; le coeve statue in terracotta da Qua el –Kebir, fatte a pezzi a causa della damnatio memoriae che colpì i potenti monarchi nelle cui tombe erano poste; il rilievo di re Sargon II da Khorsabad (fine VIII a.C.) che mercanti antiquari hanno tagliato all’altezza delle spalle e abraso in modo da renderlo più appetibile agli acquirenti occidentali, obliterando senza rimedio decorazioni e colorazioni. Poi la curiosità degli studenti si è spostata sulle opere d’arte contemporanea, in cui archeologia e attualità di mescolano in modo originale e provocatorio: le stampe fotografiche di Mimmo Jodice (Anamenesi, 2014), che ritrae volti spesso compromessi di statue esaltando l’espressività di occhi e sguardi, invitando a riflettere nel contempo sul tramonto e sulla persistenza delle grandi civiltà del passato; le sculture di Liz Glynn, repliche realizzate con materiali poveri e di scarto, con rifiuti, di manufatti antichi che il Metropolitan Museum ha restituito all’Italia dopo annose controversie legali, allo scopo di denunciare il fenomeno del mercato spesso illegale delle opere d’arte; le stampe a getto d’inchiostro di Walid Raad, opere del ciclo Scratching on Things I Could Disavow (“Appunti su cose che potrei rinnegare”), che presentano immagini di antichi manufatti schermate da porzioni di colore e ibridate con la sovrapposizione di immagini di altri reperti (fig. 2), a significare che gli oggetti d’arte non smettono di avere valore anche quando sono distrutti, manipolati o trasferiti lontano dai luoghi in cui un’antica civiltà li ha prodotti.

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Walid Raad, Scratching on things I could disavow, Preface to the third edition (edition française), Plate III, 2013.

Il conflitto tra passato e presente

L’esperienza della visita alla mostra torinese ha fatto intravedere agli studenti la questione della conflittualità del rapporto tra passato e presente. Il sentimento di disagio e inquietudine che la devastazione e la perdita del patrimonio culturale di civiltà pure lontane sulle coordinate spazio temporali ha diffuso fra i ragazzi mi è sembrato motivo valido per progettare un’attività di apprendimento situato a partire dall’esperienza vissuta. Sono stati perciò censiti alcuni casi, indicati dagli stessi studenti dopo una ricerca nel web, di migrazioni del patrimonio artistico culturale antico, di distruzioni volontarie o sottrazioni in caso di conflitto: fra le dislocazioni di monumenti, sono stati richiamati i famosi casi della stele di Hammurabi e di quella di Rosetta, dei marmi Elgin, dell’ara di Pergamo, del tempio di Debod.
Quanto alle distruzioni, le situazioni a loro già note, benché molto confusamente, sono risultate la demolizione dei Buddha di Bamiyan del 2001, il saccheggio del Museo Archeologico di Baghdad del 2003, i numerosi furti avvenuti nel Museo del Cairo durante i disordini degli scontri civili del 2011, le devastazioni del sito di Palmira nel 2015. A rendere particolarmente attuale la riflessione sul tema dell’aggressione alle testimonianze materiali di civiltà millenarie ridotte in macerie si sono aggiunte le recenti notizie in arrivo dalla Siria.
Una volta chiarito ai miei studenti che in simili frangenti l’emergenza umanitaria e la perdita di vite umane rimangono la tragedia più devastante, la riflessione si è concentrata sui rischi che i conflitti costituiscono per i beni culturali, soprattutto in territori che hanno costituito la culla della civiltà. Ad esempio, nei primi mesi di quest’anno, nell’ambito dell’operazione «Ramo d’ulivo», le milizie turche di Erdogan hanno compiuto bombardamenti e stragi presso Afrin fino ad ottenere la resa della resistenza curda stabilitasi nell’enclave di Rojava (17 marzo 2018). La Direzione generale del Dipartimento siriano per le Antichità e la Commissione per il Turismo e la Protezione dei Reperti Storici dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Rojava hanno denunciato la distruzione di importanti siti archeologici, ad esempio del tempio ittita di Ayn Dara, nella valle del fiume Afrin, a nord-ovest di Aleppo, colpito fra il 20 e il 22 gennaio 2018 dall’aviazione turca. La zona a nord est della Siria, che comprende il citato santuario di Ayn Dara e le rovine di numerosi villaggi abbandonati, è stata inserita nel 2011 dall’Unesco nell’elenco dei siti Patrimonio dell’umanità. Le recenti devastazioni di quell’area si aggiungono a quelle che negli ultimi anni hanno subito Damasco, Aleppo, Palmira e Bosra, azioni belliche tutte in aperta violazione del diritto internazionale e che si configurano come crimini di guerra secondo il diritto internazionale.

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Il Tempio di Ain Dana, attivo dal 1300 a.C. al 740 a.C., dopo il bombardamento del gennaio scorso (da Nena-news.it).

Dalla realtà alla fiction: la Siria di Zerocalcare

Per cercare di spiegare ai miei studenti il senso di perdita che provavano di fronte allo spettacolo di queste macerie, mi ha soccorso una sequenza tratta da Ferro e piume di Zerocalcare. Ferro e piume è la seconda parte di un romanzo grafico, di un reportage a fumetti uscito a puntate sulla rivista «Internazionale» nell’autunno del 2015; si trova ora nel volume Kobane calling (Bao publishing, Milano 2016). Con un andamento di tipo autofinzionale, l’autore racconta di un pomeriggio trascorso in Rojava, la zona a nord della Siria di resistenza curda contro l’ISIS e contro il governo turco di Erdogan. In compagnia di Nasrin, giovane comandante delle forze armate femminili curde, Zerocalcare, i suoi compagni di viaggio e con loro tutti i lettori entrano in questioni geopolitiche estremamente delicate e davvero complesse e fanno esperienza, diretta sui luoghi o mediata dalla pagina, degli aspetti più tragici del conflitto siriano.

  • x Copertina di ‘Ferro e piume’, tratta da «Internazionale», 2 ottobre 2015.
  • xZerocalcare, ‘Kobane calling’, Bao publishing, Milano 2016, p. 159 e ss, passim.
  • xZerocalcare, ‘Kobane calling’, Bao publishing, Milano 2016, p. 159 e ss, passim.
  • xZerocalcare, ‘Kobane calling’, Bao publishing, Milano 2016, p. 159 e ss, passim.

Dopo il viaggio nell’inferno della guerra e della devastazione di persone e cose, i protagonisti del fumetto visitano, in un clima surreale da scampagnata domenicale, un luogo in cui è possibile ritrovare “il senso”, come scrive Zerocalacare: si tratta di un sito archeologico, precisamente di un antico ponte, che all’improbabile gruppo di gitanti romani catapultati nel teatro dei più duri scontri degli ultimi anni in Medio-Oriente richiama immediatamente e inequivocabilmente il paesaggio familiare delle rovine di Ostia Antica. Il ponte sullo sfondo di quell’inedita foto di gruppo è quello ad un solo arco di ʿAyn Dīwār) che unisce le due sponde del Tigri, fiume che in quel tratto è il confine naturale tra Siria e Turchia. D’origine romana, ma ampiamente ricostruito nel XII secolo, oggi, a meno di tre anni di distanza, il ponte di ʿAyn Dīwār esiste ancora, ma è danneggiato. Risulta ancora in piedi un altro ponte di quella regione, quello romano a tre fornici nei pressi di Afrin: i nativi digitali non hanno difficoltà a verificare tramite l’applicazione Maps di Google lo stato di conservazione del patrimonio mondiale in tempo reale…

  • xIl ponte di ʿAyn Dīwār (fonte: https://journals.openedition.org/beo/docannexe/image/1404/img-4.jpg ); le coordinate per verificarne lo stato di conservazione: 37° 18′ 51.84″ N, 42° 12′ 56.16″ E
  • xIl ponte sul fiume Afrin (fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Afrin,Huri.jpg ); le coordinate per verificarne lo stato di conservazione : 36° 44′ 39″ N, 36° 57′ 33″ E

Rovine e macerie

Dunque, cosa ha indotto Zerocalcare e i suoi amici a provare un’insolita allegria a pochi passi da uno scenario di morte, a intuire una risposta alla richiesta di “senso” che fino a poco prima disperavano di trovare fra gli orrori della guerra siriana? E cosa ha spinto i miei studenti a gioire dell’integrità del ponte di Afrin, e a indignarsi per le situazioni in cui era minacciata o compromessa la possibilità di fruire del patrimonio culturale, come a ʿAyn Dīwār?
Credo che a turbarli sia stata l’idea che le rovine possano trasformarsi in semplici macerie. Lo spettacolo della violazione delle testimonianze materiali della civiltà umana non è come il processo naturale e storico di deperimento, che invecchia e logora, ma in qualche modo consegna e rende fruibili di generazione in generazione i frammenti del passato, permettendo anzi una affascinante, ancorché parziale ricostruzione del tempo che fu.
L’iconoclastia di ogni tempo (e non solo quella più recente, che marca una contrapposizione fra Occidente, cui è cara la memoria storica, e un Islam intollerante) è un gesto violento che attenta alla humanitas, con tutto ciò che essa comporta, ma soprattutto che manca di rispetto allo sforzo universale che l’uomo ha in ogni tempo compiuto per essere quello che è e di cui restano sul territorio tracce materiali che ci aiutano a gettare ponti fra passato e futuro, restando in bilico fra nostalgia e speranza, facendoci sentire sopravvissuti di un passato che ci appartiene ed offrendoci così lo spettacolo del tempo.
Su questo tema ha scritto bellissime pagine l’etnologo Marc Augé: egli contrappone gli spazi storici, i monumenti armoniosamente inseriti nel paesaggio naturale, sempre più spesso trascurati colpevolmente o consapevolmente distrutti, ai nonluoghi: essi non di rado violentano il paesaggio, e non diventeranno mai rovine, perché sono piuttosto spazi della circolazione, del consumo, della comunicazione e della solitudine.
Come ha scritto una storica dell’età contemporanea, Antonella Tarpino, che si è dedicata alla conservazione delle testimonianze materiali del passato recente: «recuperare una rovina è un atto di memoria ispirato a un più acuto dovere di responsabilità del semplice ricordare. La rovina […] è il contrario della maceria. Se questa è puro ingombro, la rovina è in sé invece un racconto, un mondo che ancora parla, forse con parole enigmatiche, certo esprime la forma del passato più coerente con sé stesso che ci è dato trovare nel presente. E allora, proprio in questa tensione tra durate diverse, recuperare una rovina è una sfida per il futuro». Credo che a scuola nell’ora di Storia per un insegnante il più ambizioso e necessario obiettivo sia quello di far crescere il senso del tempo e della storia nei suoi studenti, magari proprio educandoli all’ascolto delle parole sommesse che si levano dalle pietre.

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Claudia Mizzotti

Già bibliotecaria, insegnante di Lettere italiane e latine nel liceo e formatrice, è autrice Loescher di un manuale di storia.

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