La falsificazione della storia

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Il rapporto tra verità e storia è tanto profondo quanto problematico: si pensi ai «revisionismi» che da almeno un ventennio hanno preso possesso dello spazio pubblico, appoggiandosi sulla reticenza della narrazione dominante nell’affrontare aspetti scomodi. Una riflessione dall’ultimo numero de «La ricerca».
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Quest’affresco del XIII secolo, nella cappella dell’oratorio di san Silvestro, a Roma, celebra la donazione di Costantino, un falso storico elaborato tra VII e IX secolo per giustificare la nascita dello Stato della Chiesa.

Contrariamente a quanto piace spesso scrivere agli editori sulle fascette, nessuna storia può definirsi vera. Il rapporto tra verità e storia è tanto profondo quanto problematico. Se ne rintraccia l’origine nella duplice dimensione che Hegel attribuisce alla storia: gli eventi accaduti (res gestae) e la loro narrazione (historia rerum gestarum). Proprio mentre si fa più stretto il rapporto tra giurisdizione e storia, fino alla determinazione delle «verità» storiche tramite lo strumento legislativo, diventa necessario ribadire come la ricerca morda il freno quando si cerchi di ingabbiarla nella certezza deduttiva di uno Sherlock Holmes o di un Porfirij Petrovic1.
Nell’intervento scritto in occasione del processo ad Adriano Sofri, Carlo Ginzburg sottolineò come lo storico non possa proporsi come giudice: solo nei regimi totalitari, dove svolge il ruolo di propagandista o di ideologo può ergersi a depositario di una verità ufficiale2. Con l’investigatore e con il magistrato lo storico condivide un metodo, il paradigma indiziario, e uno scopo, la ricerca della verità. Ma radicalmente diversa è la definizione stessa della verità: risolutiva e vincolante quella scaturita da un processo giudiziario, provvisoria e parziale quando emerge da una ricerca storica.

L’ambivalenza della relazione tra storia e verità si inquadra anche nella prospettiva dell’esule, con cui Siegfred Kracauer ritrae lo storico, conteso tra il passato che esplora e il presente che vive3: egli abita in un’extraterritorialità dalla quale può fissare, sul passato che non gli appartiene, quello sguardo critico che viene da un difetto di immedesimazione e permette di esaminare un’epoca passata con il nitore negato dall’eccessiva vicinanza ai contemporanei.L’uomo sembra aver sviluppato un interesse a falsificare la storia non meno formidabile di quello di scoprirla. Nell’allegoria hegeliana Kronos, il dio tempo che divora i suoi figli, è dominato da Zeus, dio della politica, che attraverso la fondazione dello Stato trasforma in storia tutto ciò che Mnemosine, dea della memoria, ha raccolto dal passaggio devastante del tempo. Le anguste cateratte del testo di Hegel, volte ad attribuire il potere della storia al potere politico e la capacità di comporre la storia alla codificazione scritta (e dunque solamente alle culture capaci di ciò) sono state rotte dal processo di «democratizzazione» e «universalizzazione» intrapreso dalla ricerca storica. Ma rimane valida la suggestione che il mito di Hegel ancora suscita nel definire il peculiare rapporto tra storia e presente: non solo il passato serve a spiegare l’oggi secondo l’assunto tucidideo, ma lo storico ricostruisce il passato con gli elementi sopravvissuti nel presente. È la grande lezione di Marc Bloch4.
La ricostruzione storica di un evento è dunque un modello da laboratorio che tenta di approssimarsi all’accadimento storico e di comprenderlo. Inoltre, poiché la somma degli elementi superstiti rimane inadeguata alla loro diffusione, lo storico li seleziona e li rinarra. La ricerca storica non può dunque essere dogmatica. Ma nemmeno discrezionale. È una forma di narrazione e di scrittura del passato, che risponde alle regole di un mestiere (e di un’arte): l’identificazione di un «dato fattuale» verificato da una fonte; la definizione del suo contesto; il confronto con gli studi precedenti. La storia tende incessantemente a rivedere le proprie acquisizioni: la scoperta di fonti inedite che gettano una luce diversa sugli eventi, l’intuizione di nuovi paradigmi interpretativi appartengono al naturale dispiegarsi della ricerca. Al tempo stesso, gli studi passati possono essere discussi, contestati, ma mai ignorati. Poiché nessuno storico può ambire a una ricerca universale, il dialogo con la storiografia e la fiducia nei risultati raggiunti sono aspetti essenziali del metodo storico. Non solo il passato serve a spiegare l’oggi secondo l’assunto tucidideo, ma lo storico ricostruisce il passato con gli elementi sopravvissuti nel presente. È la grande lezione di Marc Bloch.L’adesione dello storico a un metodo non significa tuttavia che questo sia perfettamente neutrale o indifferente rispetto al corredo etico che accompagna gli eventi storici. Né che sia portatore di una moralità superiore: anch’egli è corruttibile da molte sirene, in primis quella del mercato. Semplicemente, lo storico che mette onestamente in atto il metodo della sua disciplina non può essere al servizio di una finalità precostituita. È una creatura bicefala, libera e serva: assolutamente libero nel porre le domande alle fonti, ma vincolato alle parole dei documenti nel definire le risposte.

Il perché di un falso

Conoscenza del contesto, delle fonti e della storiografia sono dunque i tre elementi indispensabili per analizzare un evento storico con la volontà di capirlo. La falsificazione della storia interviene su uno o più di questi aspetti. Il processo è antichissimo. L’uomo sembra aver sviluppato un interesse a falsificare la storia non meno formidabile di quello di scoprirla5. Perché questo avviene?
La storia non è mai neutra: questa interagisce con memorie singole e collettive che possono suscitare emozioni e dolori, essere conflittuali e divisive. Nel momento in cui si iscrivono nello spazio pubblico, i ricordi sono sottoposti ad una pressione della comunità: esistono memorie ufficiali, istituzionalizzate, protette dagli Stati e memorie deboli, sotterranee, perseguitate. Storia e memoria entrano in collisione in un terzo spazio comune nel quale si affrontano e si influenzano. Nella stessa misura in cui forniscono materiale alla storia le memorie cercano di accreditare il proprio carattere peculiare sul resto della storia, obnubilando tutti gli elementi che possono offuscare la narrazione desiderata. La storia non è mai neutra: questa interagisce con memorie singole e collettive che possono suscitare emozioni e dolori, essere conflittuali e divisive.Al tempo stesso la storia serve alla rappresentazione pubblica (e alla legittimazione) di un potere, di una nazione, di una fede, di un’idea, dei principi attorno a cui una comunità si raccoglie. La sua sottomissione a una necessità ideologica insinua la tentazione di creare fonti compiacenti o una determinata discrezionalità nella loro interpretazione. Se ci limitiamo a considerare la costruzione della nazione moderna ne ritroveremo le fondamenta in quel patto tra memoria e oblio delineato da Renan.
L’anamnesi del rimosso, tuttavia, può a sua volta farsi ossessione della memoria6 e riemergere in contronarrazioni che rifiutano la narrazione egemone per un’altra, latrice di memorie e valori e contrastanti. In maniera ancor più pervicace, la memoria alternativa ricorre ad una medesima contraffazione dei dati. Il campo di scontro non è però il passato, ma il presente. Si pensi ai «revisionismi» che da almeno un ventennio hanno preso possesso dello spazio pubblico, appoggiandosi sulla reticenza della narrazione dominante nell’affrontare aspetti scomodi. Per tutti vi è un obiettivo predeterminato che ha un forte radicamento in una finalità politica attuale: l’equiparazione tra Resistenza e Repubblica di Salò o la pseudo storia neoborbonica, giusto per citare i casi più eclatanti, perseguono nel primo caso un superamento delle istituzioni repubblicane e della Costituzione, nel secondo un’opposizione alla preponderanza economica del Nord Italia, attraverso la contronarrazione di un Sud negletto, la cui cifra principale è il carico di sofferenze e abusi subiti. In gran parte della pubblicistica revisionista, il dibattito storiografico non viene quasi mai preso in considerazione, se non per delegittimarlo in un’entità che volutamente nasconde «la vera storia». L’obiettivo è la negazione del Risorgimento e della Resistenza, le due mitologie fondative della Repubblica italiana, e dunque dei valori che reggono il presente.

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La quinta edizione italiana dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, del 1938.

Un processo di falsificazione della storia può avvenire in due modi: attraverso la falsificazione del dato fattuale oppure del contesto storico. La contraffazione del dato fattuale è il procedimento più noto: può essere attuato tramite la fabbricazione di dati fittizi o attraverso la negazione di dati reali (esempio eclatante è il negazionismo).
L’adulterazione di un documento è fatto diffuso fin dall’antichità: allora poteva anche procedere da un minor scrupolo filologico per cui si riteneva accettabile l’operazione di colmare un vuoto attraverso la costruzione di un falso verosimile. Il falso novecentesco nasconde invece un fine, politico o economico. Le operazioni possono essere raffinate e sofisticate (si pensi al testamento di Deng Xiao Ping: vero o falso che sia testimonia la partecipazione alla sua stesura dell’ala innovatrice del Partito comunista cinese), altre volte sono più grossolane, come il caso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion o dei falsi diari di Mussolini7. Comunque sia, il falso partecipa al tempo storico in cui nasce, e dietro la sua creazione molto si può intuire: sia delle motivazioni che presiedono alla sua produzione, sia dei contesti che lo recepiscono e diffondono. Allo stesso modo la sua improvvisa riviviscenza, anche dopo la dimostrazione della sua falsità, ci dice molto del tempo storico in cui questo accade. Il falso storico è il più delle volte un documento interamente inventato o distorto da un originale autentico. Ma può anche essere qualcosa di immateriale, come la messa in circolazione di una voce che si radica nella memoria collettiva fino ad essere accettata come verità. Un esempio è la leggenda nera dei comunisti che mangiano i bambini: Stefano Pivato le ha dedicato una documentatissima opera che ne ricostruisce la genesi nelle grandi carestie dell’Unione Sovietica e ne segue lo sviluppo e l’utilizzo politico, nei manifesti, attraverso la carta stampata, fino al suo utilizzo nel discorso pubblico da parte di Silvio Berlusconi8.

Come scrive Sergio Luzzatto, una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione della dimenticanza.Nei casi di falsificazione del contesto, i dati fattuali sono riprodotti correttamente, mentre ciò che viene adulterato è il «contorno». Si pensi ad esempio alla narrazione che accompagna il ricordo degli eccidi nelle foibe, perpetrati nei confronti degli italiani, e del successivo esodo negli anni che vanno tra il 1945 al 1947; porta il carico di decenni in cui gli occhi sono rimasti chiusi su quelle sorti atroci, tuttavia non può rappresentare una riparazione il suo inserimento nel mito acritico degli «italiani brava gente», che omette il programma di distruzione dell’identità slovena e croata perseguita sotto il generale Roatta, la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Jugoslavia, il clima di violenza instaurato dal fascismo nelle campagne istriane, gli eccidi perpetrati sulle popolazioni slave da truppe naziste e fasciste9.

Anche i paradigmi di «memoria condivisa» o di «storia scritta dai vincitori», cari a una rilettura svalutante della Resistenza, rappresentano processi di falsificazione del contesto. Come scrive Sergio Luzzatto, una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione della dimenticanza10. Quando nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha commemorato indiscriminatamente «tutte» le vittime della guerra, ebrei, soldati, partigiani e «ragazzi di Salò», ha rimosso, in nome dell’uguaglianza nella morte, la disuguaglianza nella vita. Altra cosa è la storia condivisa, ovvero la definizione comune del territorio storiografico, nel quale però le differenze non possono essere annullate11. Similmente la definizione del campo storico dell’antifascismo in vincitori che scrivono la storia e vinti che la subiscono rappresenta una fittizia semplificazione della complessità delle relazioni. Sono vincitori gli ebrei ammazzati nei campi di sterminio? Sono vinti quegli apparati funzionali al regime e capaci di riciclarsi durante la Repubblica? Se vi sono dei vinti, questi sono le classi subalterne, le donne, le minoranze, il cui ingresso nell’analisi storiografica ha scontato un lungo ritardo.

Il «revisionismo», una falsificazione che fa tendenza

Il «revisionismo» – termine ambiguo e sfuggente, o meglio usurpazione di una parola per conferire autorevolezza a tesi che spesso non ne hanno – rappresenta il più noto processo di falsificazione della storia oggi in atto12. Potremmo dire che il «revisionare» è connaturato all’indagine storica. Tuttavia, per il modo in cui si è strutturato nello spazio pubblico, il revisionismo oggi si configura come un’operazione antitetica alla ricerca storica, a partire dalla narrazione che dà di sé. La comunità degli storici è avversata come un’entità imperscrutabile e un potere oppressivo che permette l’accesso ad alcune memorie e ne occulta altre. Contro di essa si batte il revisionista, sorta di Robin Hood che restituisce al popolo la memoria di cui è stato privato.
Più che inventare, il revisionismo ricicla solitamente materiali già noti, facendo leva sulla forza e l’immediatezza del linguaggio. I revisionisti rifiutano spesso l’elemento cardine, la nota; ovvero lo strumento che rappresenta il legame con la fonte, simbolo di un’«accademia», alla quale oppongono un’opera pensata per il «popolo». Frequente è l’indugio in un’aneddotica che può suscitare l’attrazione di un’ampia fetta della popolazione. Nel caso del revisionismo sul regime fascista, l’assoluzione del capo e della classe dirigente si accompagna spesso al dettaglio voyeuristico che ben si adatta alla neutralizzazione di un ritratto benevolo e umano13.
L’abisso che separa ricerca storica e revisionismo è solo all’apparenza netto. Talvolta la frattura si colloca dentro la stessa storiografia. È l’abisso che divide l’elaborazione innovativa della Resistenza come simultanea compresenza di tre guerre (di liberazione, di classe e civile), condotta da Claudio Pavone, dagli espedienti di Pansa, che abbondano di quelle strumentalizzazioni della storia da lui stesso condannate ancora all’inizio degli anni Novanta. Eppure il passato di Pansa è quello di un discepolo attento ed efficace del metodo storiografico: la sua è dunque la deliberata scelta di un abbandono.
Più che inventare, il revisionismo ricicla solitamente materiali già noti, facendo leva sulla forza e l’immediatezza del linguaggio.Lo spazio che il revisionismo ha saputo ricavarsi non può tuttavia essere disgiunto dalla prima patologia della memoria provocata dall’ideologizzazione dell’antifascismo. Anch’esso ha avuto inevitabili riflessi deteriori sulla ricerca storica, nella misura in cui la denuncia del fascismo ha prevaricato l’analisi del fenomeno. Il conflitto tra una «storia ufficiale» dell’antifascismo e una «storia revisionista» che utilizza strumenti di contraffazione ancora più radicali, per quanto non equiparabili, poiché sostenute da valori radicalmente diversi, rappresenta una contrapposizione tra falsificazioni che si contendono lo spazio pubblico e si alimentano reciprocamente.
Esiste una terza storia, quella critica, ma muovendosi sul piano della complessità il suo accesso allo spazio pubblico rimane difficile e limitato.

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Molti quotidiani e innumerevoli siti web documentano la storia di Giuseppina Ghersi con questa immagine. Ma è un falso, perché non si sa chi sia questa ragazza. Secondo l’archivio Getty Images questa fotografia fu scattata a Milano il 16 maggio 1945, quindi in un’altra città e un mese prima dell’esecuzione di Giuseppina Ghersi.

La storia di fronte ai social network: una sopravvivenza problematica

Beato il Paese che saprà dialogare con la critica storica nel definire la propria rappresentazione pubblica della storia. Oggi è certamente impresa ardua per la storiografia interagire con uno spazio pubblico che sembra tendere a un’inarrestabile semplificazione.

La rete ha fornito strumenti di inaudita potenza per comunicare e divulgare la storia: documentari, archivi online, documenti digitalizzati. Al tempo stesso ha favorito una formidabile moltiplicazione di fake-news (e fake-photo) di gran presa sull’immaginario collettivo14. Nel rapporto tra velocità e nuovi media, la complessità di piani su cui si muove l’analisi storica è meno performante rispetto a parole gridate e spettacolari, mentre, ancor più che in passato, il valore conferito all’opinione, sulla base del gusto, smarrisce altri criteri di valutazione quali l’autorevolezza, o il tempo profuso in una ricerca. L’idea che lo storico occulti la storia e il blogger intrepido o il giornalista coraggioso sveli la frode diventa una narrazione alla portata di tutti.
Nel rapporto tra velocità e nuovi media, la complessità di piani su cui si muove l’analisi storica è meno performante rispetto a parole gridate e spettacolari.Se pochi anni fa solo alcune agenzie avevano la forza di imporre una falsa notizia, oggi questa possibilità è parcellizzata da una diffusione virale. Si pensi al caso scoppiato attorno alla proposta di una lapide a Giuseppina Ghersi, uccisa durante i giorni della Liberazione. La divulgazione dei particolari raccapriccianti di un omicidio atroce ha immediatamente colonizzato le piattaforme del web con diatribe feroci. Eppure, l’assassinio di Giuseppina Ghersi è alquanto nebuloso. Narrazioni estemporanee e fittizie, tutt’altro che candide, hanno pensato di sopperire al silenzio delle fonti, divulgando dettagli per i quali manca un aggancio con i documenti ad oggi noti15. Ed è certamente l’emblema di un distorto rapporto con la storia che la proposta di una lapide abbia preceduto una ricostruzione, che definisse, con la precisione consentita dal presente, le responsabilità, i moventi e il contesto dell’omicidio. Non sarebbe che un nuovo monumento al falso storico, un nuovo sfregio, a distanza di settant’anni, sulla vita e morte di una ragazza.


NOTE

1. Per un approfondimento del rapporto tra storia e verità rimando al saggio di Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre corte, 2006 al quale questo incipit è debitore.
2. C. Ginzburg, Spie, radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino, 2014.
3. S. Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Alessandria, 1985.
4. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, pp. 38 e ss.
5. Si veda L. Canfora, La storia falsa, Milano, Rizzoli, 2009.
6. H. Roussou, Le syndrome de Vichy: de 1944 à nos jours, Paris, Editions su Seuil, 1990.
7. M. Franzinelli, Autopsia di un falso: i diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
8. S. Pivato, I comunisti mangiano i bambini: storia di una leggenda, Bologna, il Mulino, 2013.
9. E. Gobetti, Alleati del nemico: l’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma Bari, Laterza, 2013; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-43), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
10. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Einaudi, 2004.
11. Cito solo per la sua valenza esemplare G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli, 2005.
12. Opere fondamentali sull’analisi del revisionismo sono le collettanee di A. Del Boca (a cura di), La storia negata: il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza, 2009 e E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo: rimozioni, revisioni, negazioni, Roma, Laterza, 2000.
13. Precursori del revisionismo possono essere individuati in I. Montanelli, Il buonuomo Mussolini, Milano Editori Riuniti, 1947 e P. Monelli, Mussolini piccolo borghese, Garzanti, 1950.
14. Rimando come esempio al reportage fotografico di Piero Purini sui falsi fotografici sulle foibe e sul loro uso pubblico, Come si manipola la storia attraverso le immagini: Il Giorno del Ricordo e i falsi fotografici sulle foibe in https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/.
15. Si veda l’articolo del collettivo Nicoletta Bourbaki, Il caso Giuseppina Ghersi. Incongruenze, falsi e zone d’ombra (Una prima ricognizione) all’indirizzo: https://www.wumingfoundation.com/giap/2017/09/il-caso-giuseppina-ghersi-1/.

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Marco Labbate

è dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino.  Ricopre l’incarico di vicedirettore scientifico dell’Istituto di storia contemporanea di Pesaro e collabora con l’Istituto storia Marche e con il Centro studi “Sereno Regis” di Torino. Tra i suoi ultimi libri pubblicati, “Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana”, Pacini Editore 2020, e “Non un uomo né un soldo – Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino”, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2022.

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