Costruire l’identità #1

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Non potendo più attingere a grandi narrazioni socialmente e culturalmente condivise, costruire la propria identità diventa un compito sempre più individuale.

Nelle scienze umane e sociali i concetti, le teorie e i metodi vivono alterne fortune, anche oltre le questioni epistemologiche e i dati empirici che le sostengono e che contrappongono i vari orientamenti della ricerca e della conoscenza. Il tema dell’identità non sfugge a questa regola.

David Hockney, The Crossword Puzzle, Minneapolis, Jan 1983, 1983 © David Hockney

Negli ultimi decenni la riflessione attorno all’identità ha conosciuto un forte sviluppo, e ha consentito lo snodarsi di un animato dibattito che, uscito dall’ambito specialistico della ricerca e dai congressi scientifici, ha coinvolto in modo prepotente media, politica e persino gli scambi quotidiani dei non addetti ai lavori.
Prima di costituire una questione importante per gli studiosi, e quindi prima di interrogarla come categoria educativa, filosofica, psicologica, sociologica ed anche storica, il tema identitario ha sempre costituito un aspetto fondamentale nelle interazioni umane. L’identità degli altri, così come io me la rappresento, è un orizzonte e un limite per il mio modo di relazionarmi con loro e per costruire la mia percezione della mia identità personale e di quelle altrui. A prescindere dalle speculazioni: la mia identità è costituita dal “chi sono” per chi mi sta di fronte e intorno a me e dal “chi sono” secondo me, e queste due costituenti stanno in profonda relazione e si influenzano reciprocamente. L’influenza degli altri sarà tanto maggiore e accettata acriticamente (producendo una certa conformità alle attese e alle rappresentazioni degli altri) quanto minori sono i materiali da “costruzione” e gli strumenti riflessivi che ho a disposizione per “costruirmi”. L’identità degli altri, così come io me la rappresento, è un orizzonte e un limite per il mio modo di relazionarmi con loro e per costruire la mia percezione della mia identità personale e di quelle altrui: questi scambi e queste costruzioni avvengono attraverso narrazioni esplicite e implicite.

Non potendo più attingere a grandi narrazioni socialmente e culturalmente condivise – non potendo riferirsi, se non in misura minima, alle esperienze delle generazioni precedenti l’identità, insomma –, tale compito diviene sempre più individuale (Lyotard,1981) per un soggetto che pure è inserito in un contesto, anzi in molteplici contesti, e che da essi trova risposta e retroazioni. Tenere insieme il puzzle identitario che deriva dalle nostre molteplici appartenenze, relazioni, dai diversi ruoli rivestiti, dalle nostre esperienze, dai significati che attribuiamo a tutto ciò e dai diversi feedback che riceviamo nei vari ambienti per noi significativi, farlo in un quadro unitario e senza precipitare nella confusione, nell’inconsapevolezza, nella delega (ai media o ad altre agenzie produttrici di significati di tipo narrativo), risulta estremamente complesso. Si tratta di un incontro al limite: incontro con i propri confini, ricorsivamente mutevoli, incontro Le grandi narrazioni, come spiega Lyotard, permettevano di tenere insieme la propria identità, attraverso valori e significati, regole e dispositivi per produrli, istruzioni e repertori di senso. con le proprie possibilità e con il desiderio di ampliarle. La delega è più semplice: posso “acquistare” (in senso letterale o metaforico) identità già pronte, precostituite, rispondendo a ciò che mi viene offerto dalle grandi agenzie narrative, inserendomi in quelle storie, obbedendo alle regole e ai comportamenti di quei personaggi, imparando a provare quelle emozioni e ad attribuire quei significati.
Se le grandi narrazioni, come ha efficacemente spiegato Lyotard (Lyotard, 1981), permettevano di tenere insieme, in un quadro unitario, la propria identità, attraverso una serie di valori e significati (e di regole e dispositivi per produrli) e attraverso istruzioni e repertori di senso utilizzabili nell’esperienza quotidiana, oggi questo compito è assegnato soprattutto al singolo soggetto (Petit, 2010): ne deriva, perciò, la necessità irrinunciabile di dotarsi di competenze che facilitino e consentano questi processi. L’identità e la nostra percezione di controllo su di essa stanno al centro di questi processi.

La permanenza dell’identità va oggi letta in un senso diverso dal passato: non tanto come permanenza dei medesimi tratti o come “nocciolo” della personalità che non muta, centro permanente attorno al quale far gravitare il resto, quanto come tragitto lineare, come continuità con il proprio passato, con la propria storia, ininterruzione rispetto alle proprie vicende interpretate sempre dall’arbitrario punto di vista del presente. Esistono, senza dubbio, uno scarto, una discrepanza relativamente recenti riguardo alla cultura del presente: un atteggiamento critico e insoddisfatto, che non trova allettanti i nutrimenti che ciascuno di noi può reperire nel proprio passato (in termini di repertorio di senso e significato, in termini di materiali per gestire le proprie esperienze successive tesaurizzando le precedenti), né ritiene fondamentale una capacità progettuale – una visione favorita dalla molteplicità di stimoli che la connessione globale comporta.

Riferimenti bibliografici:
Lyotard J. F. (1981, ed. or. 1979), La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli.
Petit M. (2010), Leggere per vivere in tempi incerti, Pensa Multimedia, Lecce.
Sparti D. (2002), Epistemologia delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino.

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