A volte ritornano

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Nessuno (almeno di mia conoscenza) rimpiange la TV in bianco e nero, anche se conosco molte persone che sono assai critiche per quanto riguarda la qualità dei programmi. Allo stesso modo, tutti coloro che possiedono un’autoradio considerano positivamente il fatto che le apparecchiature più recenti siano in grado non solo di memorizzare le stazioni di loro maggior gradimento, ma anche di impostare le relative frequenze a seconda di dove l’autovettura si trova.

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Nel primo caso non viene messa in discussione la superiore piacevolezza della TV a colori e – per quanto si possa usare questa espressione – una sua maggior aderenza alla realtà materiale. Nel secondo si applica una semplice regola ergonomica: facilitare al massimo l’utente semplificando il governo del funzionamento del dispositivo. Bene: ciò che sembra pacifico per queste strumentazioni della vita quotidiana (e per altre, dagli altri elettrodomestici ai navigatori satellitari) sembra non essere acquisito quando si parla di personal computer e loro derivati, portatili, tablet e smartphone. Tra coloro che ciclicamente si sdegnano perché gli utenti dell’interfaccia grafica (quell’insieme di icone, finestre, menu, pulsanti su cui agiamo con click del mouse, tap del dito o gesture della mano) trovano già tutto pronto e non sono pertanto messi in condizione di apprezzare il senso autentico e lo scopo profondo dell’informatica, si collocano questa volta i fautori di Raspberry Pi, almeno nell’interpretazione sensazionalistica dell’Espresso. Secondo questa prospettiva, sarebbe proprio il doversi misurare “senza rete” con la complessità del loro funzionamento il vero valore aggiunto degli strumenti elettronici, sul piano non solo operativo, ma anche cognitivo e culturale. Coerentemente con questa impostazione, Raspberry Pi – esplicitamente pensato per bambini e ragazzi – ha l’interfaccia a comandi, che impone di imparare un linguaggio tecnico specialistico se si vuole adoperare il dispositivo. E quindi di dipendere da qualcuno (esperto) o qualcosa (manuale tecnico). La motivazione di questa scelta starebbe nel fatto che non disporre di modalità di uso preconfezionate e doversi di conseguenza dare da fare per trovare in proprio modi di impiego incrementerebbe la creatività. Anche questo discorso – che per altro mette a carico dell’utente sia i bisogni sia le soluzioni – non è nuovo. La medesima idea – senza però la demonizzazione dell’interfaccia grafica, ovvero dell’innovazione ergonomica che ha permesso ai pc prima e ai loro derivati poi di diventare oggetti inclusivi, e pertanto di avere ampio mercato nei consumi di massa – animava l’uso di LOGO. Questo insieme di istruzioni per computer,  concepito da Seymour Papert con fini pedagogici dichiarati, si proponeva di far praticare a bambini e ragazzi sia la logica di un linguaggio di programmazione sia molti concetti geometrici e grafici attraverso la metafora della tartaruga da far muovere sullo schermo. Si trattò di un’esperienza significativa, che a sua volta fu paragonata ai mattoncini del Lego, ma che mostrò rapidamente i suoi limiti. A metterla in crisi fu in primo luogo l’ampliamento delle possibilità operative e cognitive offerte dall’evoluzione dei computer e soprattutto dell’impostazione amichevole dei software degli anni Novanta. Ma fu anche  evidente che, in mancanza di una stimolazione adulta diretta, la stragrande maggioranza dei giovani utenti di LOGO non mostrava alcun interesse a proseguire per proprio conto le attività imparate a scuola. Dietro la visione messianica e totalitaria che sembra connotare attualmente Raspberry Pi e che in precedenza ha caratterizzato altre esperienze analoghe, vi è inoltre, a mio giudizio, una concezione limitativa e autoreferenziale della creatività, che non riguarda solo l’esperienza tecnologica, ma anche le varie altre attività che i dispositivi digitali con interfaccia amichevole hanno reso più immediate e semplici, prima tra tutte la scrittura di testi. Raspberry Pi, infine, si colloca nel filone della cultura opensource: il suo sistema operativo è infatti Raspbian. Questo è certamente un fatto positivo: l’impiego di software di derivazione Linux non richiede infatti all’utente l’acquisto di una licenza d’uso. Va detto però che tutte le distribuzioni di Linux più diffuse ed effettivamente utilizzate, tra cui Debian – da cui è ricavato il citato Raspbian – o Ubuntu, utilizzano la tanto vituperata interfaccia grafica, così come alcuni tra i più celebrati software liberi, come Firefox o LibreOffice. O ancora Mosaic, il primo programma per personal computer che rese la navigazione in rete davvero alla portata di tutti.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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