Interoperabilità vo cercando

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A ciascuno la sua battaglia. Mentre nelle piazze e nell’aula della Camera dei Deputati infuria la “buona scuola”, in sala insegnanti si affrontano, stancamente e per l’ennesima volta, le insidie delle tecnologie digitali.


È in corso la rituale partita del documento cosiddetto “del 15 maggio“, quello che presenta alla Commissione i ragazzi delle Quinte all’Esame di Stato. Raccoglie notizie sul percorso, sui risultati, sul tasso di discontinuità della composizione del Consiglio di Classe, oltre a indicare come e quando siano state effettuate le simulazioni delle prove scritte ed – eventualmente – del colloquio orale.

Per la redazione del suddetto, chi di dovere ha predisposto appositi file, raggiungibili da chiunque di noi in una cartella della LAN di istituto, così importante che il suo cervellotico percorso logico (path per gli smanettoni) ci è stato comunicato con circolare dirigenziale urgente.
Peccato che la suddetta persona (o la suddetta équipe di lavoro – ogni trasparenza trova nella scuola un suo limite) ignori con ogni evidenza il fatto che sia Microsoft Word sia i suoi equipollenti concorrenti open source offrano da tempo immemorabile uno strumento pensato per situazioni come queste, in cui più persone devono fruire degli stessi bit senza preoccuparsi di preservare originali, salvare copie, evitare cancellazioni e sovrascritture involontarie, tutti eventi invece in agguato.
In gergo questo modo di operare si chiama template: consiste nel consapevole salvataggio di un file-matrice. Una volta fatto questo, basterà cliccare due volte sopra di esso e il programma di scrittura si avvierà conformato al modello di lavoro previsto, lasciando immutato quest’ultimo, pronto così a essere usato da un altro collega.

In assenza di questo modo di procedere, per molti è davvero una grande fatica procurarsi le proprie copie personali, che in genere finiscono su “chiavetta” USB e vengono riempite di specifici contenuti e compilate a casa.
Qui è spesso nascosta un’altra potenziale trappola, ovvero la configurazione del PC familiare, che molti condividono con coniugi e/o figli, a cui spesso è riservata la potestà decisionale in merito ai programmi da installare e alle associazioni tra file e ambienti di lavoro, in questo caso il word processor deputato ad aprire il file portato da scuola.
E così c’è chi torna a scuola con una relazione salvata nel famigerato formato .DOCX, quello che la vulgata sostiene non sia “apribile” se non con le versioni di Word a partire da quella del 2007, di cui alcuni dei PC della mia scuola sono privi.
Non è così, perché Microsoft – a fronte della presa di consapevolezza del fatto di aver involontariamente messo nei guai i propri fedeli clienti – ha rilasciato da anni uno strumento per risolvere il problema; ma questo parecchi colleghi lo ignorano, seguiti a ruota da molto del personale addetto alla manutenzione e alla gestione dei software e dei dispositivi: il risultato sono nervosismo, frustrazione, ripetute maledizioni nei confronti degli strumenti digitali.

L’ignoranza – perdonabile in chi non percepisce il proprio salario come “addetto ai lavori”, meno in chi è in questa situazione – si estende anche al fatto che esiste un’ampia quantità di siti che offrono in forma gratuita e immediata la possibilità di operare pressoché qualsiasi tipo di conversione tra formati.
Proprio stamattina – grazie a questa banale nozione – ho restituito il sorriso a una collega che aveva commesso il gravissimo errore di salvare il proprio lavoro domestico con Pages, programma di scrittura tipico del mondo Apple, notoriamente assente nella scuola, se non nei luoghi – un poco snob – in cui si “sperimenta” l’uso didattico dell’iPad.

Gli aspetti culturalmente più sconfortanti sono due. Da una lato, la gran parte dei soggetti coinvolti in questi episodi appare ormai del tutto rassegnata al fatto che l’introduzione del digitale comporti una progressiva e ineluttabile perdita di controllo delle attività che caratterizzano il loro profilo professionale. Dall’altro, si crea in molte scuole una sorta di tecnocrazia di serie B, chiusa, inefficiente e – tra l’altro –incongruente con la vera tendenza del mercato delle tecnologie digitali, che è invece sempre più connotato dall’intenzione di garantire l’interoperabilità tra sistemi operativi e singoli programmi, ovvero la capacità di dispositivi e software di scambiarsi i dati, garantendone l’integrità e la piena fruibilità, senza che questo comporti carichi economici, operativi e cognitivi tali da scoraggiare clienti effettivi e potenziali.
Ne sono testimonianza non solo la piena compatibilità dei file che dovessero circolare tra PC Windows, MacOSX e Linux e tablet, smartphone e phablet iOS e Android, ma anche alcuni nuovi dispositivi, che, pure essendo attualmente ancora prodotti di nicchia, indicano prospettive e sviluppi interessanti.
Sto parlando per esempio dei mini PC con sistema operativo Android, che possono essere collegati a una porte HDMI di un televisore ad alta definizione, con l’effetto di trasformarlo spendendo poche decine di euro in una sorta di PC a grande schermo, per l’uso collettivo, ovviamente perfettamente connesso a Internet e con numerose funzionalità, incrementabili a piacere con l’installazione personalizzata di App.

Se invece si vuole disporre di una sorta di LIM in miniatura, si può ricorrere alla novità più recente: i proiettori che integrano al proprio interno un mini pc; dotati di sensori, essi sono in grado di intercettare le pressioni effettuate dall’utente su qualsiasi superficie vengano puntati.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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