Quaderno della Ricerca #41

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I Quaderni della Ricerca

La natura del bello Romanae Disputationes 2017-18 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari

Didattica per l’Eccellenza



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I Quaderni della Ricerca

La natura del bello Romanae Disputationes 2017-18 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari


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Indice Introduzione

di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari

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Saluto del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

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Parte prima. Lezioni e conversazioni

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La natura del bello

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di Elio Franzini La bellezza nella filosofia moderna e contemporanea

di Sergio Givone Lasciarsi guardare dalla bellezza

Intervista a Giuseppe Frangi a cura di Maria Teresa Tosetto e Gabriele Laffranchi

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Parte seconda. Sul Concorso

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La bellezza della filosofia alla prova delle Romanae Disputationes

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di Marco Ferrari Vincitori dei Concorsi 2017-2018

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Sulle tracce del bello

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di Manuel Altavilla, Giuseppe Cardinale, Elio Simone La Gioia, Stefano Restaldi, Bianca Russo, Federica Stefanizzi 1. Introduzione

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2. Origine del senso estetico nell’uomo

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La natura del bello

3. Il bello nell’opera d’arte

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4. La chiamata del bello

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5. I paradossi del bello

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6. L’era dell’iperbellezza

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7. Du mußt dein Leben ändern: il bello e il Kitsch

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8. Conclusione

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Il canto dell’usignolo

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di Francesco Chen, Arianna Diotti 1. Per un soffio(ne)…

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2. Un’inutile bellezza?

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3. Il senso dell’orientamento

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4. Il dolore come bussola

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5. Una freccia dritta al cuore

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6. Un legame cum-corde

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7. Con un soffio d’(i)amante

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Bibliografia

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Sitografia

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Dialogo sui massimi sistemi dell’estetica

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di Federica Celidonio, Nebosja Di Cola, Aurora Malfitano, Lorenzo Tranchedone Le componenti della bellezza. Oggettività e soggettività che si intrecciano

di Riccardo Amato, Ilaria Nicosia, Lorenzo Parma, Massimiliano Zenato

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1. Introduzione

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2. Cultura che incontri, bellezza che trovi

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3. Chi bello vuol “sperimentare”, un po’ di male deve soffrire

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4. “La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito”

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Indice

5. “Non è bello ciò che è bello”, è questione di gusto

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6. “La bellezza salverà il mondo”, ma i rischi sono molti

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7. Una conclusione è possibile?

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Bibliografia

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Sitografia

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La natura del bello. Il tradimento linguistico della dimensione umana

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1. Introduzione

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2. Il bello della natura

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3. Il linguaggio come tradimento

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4. La musica come forma più alta di tradimento

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5. La funzione sociale del bello

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6. Conclusione

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Bibliografia

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Filmografia

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di Alessandro Cangiano, Letizia Petrungaro, Eleonora Pini

Il bello che non c’è. Piccolo vocabolario dell’incompiuto

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1. Alle radici dell’incompiuto

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2. Arte e incompiuto

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3. Espedienti letterari

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4. Paul Cézanne: l’incompiuto come vera realtà

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5. Medardo Rosso: la fugacità del non-finito

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Bibliografia

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Una corrispondenza

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Bibliografia

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Videografia

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di Yohannes Medhanie Abraham, Anna Mironov, Mattia Schiavini

di Rebecca Adorni, Iris Dhima, Camilla Ferri, Alice Fontana, Camilla Innocenti, Rachele Pinelli, Francesca Rosaia, Francesca Rossi, Anya Vegnuti

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La natura del bello

Costellazioni del bello

di Maria Letizia Castelli, Federica Di Marzio, Veronica D’Onofrio, Giuliana Ettorre, Chiara Marcelli, Irene Micolucci, Davide Piccioni 1. Introduzione

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2. Durare nel kairós

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3. Amoroso bisogno

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4. Nell’evento

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5. Irrompe la differenza

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6. Il volto negativo

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7. Tensioni o armonie?

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8. Conclusione

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Bibliografia

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Sitografia

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Bellezza: inno sensibile dell’inevidente manifesto

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di Diletta Bisio, Alessia Parolini

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1. Ingresso alla bellezza

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2. I trascendentali nella storia

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3. L’auto-occultamento al mistero

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4. La necessità dell’ascolto

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5. L’innegabile «ammiccamento delle cose che si fanno vedere»

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Bibliografia

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Sitografia

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Autori e curatori

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Introduzione di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari

Con quella del 2018, siamo alla quinta edizione del Concorso Nazionale Romanae Disputationes (rd). Esso cerca di promuovere in Italia l’eccellenza nello studio della filosofia a livello di scuola secondaria superiore. Le rd in questi anni hanno offerto a migliaia di studenti del triennio superiore di tutta Italia un percorso di ricerca e di confronto, aperto a tutti gli orientamenti culturali, realizzato in collaborazione col mondo universitario, ponendo a tema le grandi domande che la filosofia offre. Il Concorso si radica nel lavoro quotidiano di numerosi docenti di filosofia della scuola secondaria superiore che condividono la propria esperienza di insegnamento per riscoprire, in quella comunità di lavoro che è la Bottega di Filosofia di Diesse, i contenuti e i testi della filosofia al di là del già saputo e sedimentato1. Nelle rd gli studenti, raccolti in team, vengono sfidati a lavorare sui più affascinanti temi di cui si occupa la filosofia, come la ragione umana, la libertà, la giustizia, la tecnologia, il bello. Tali questioni costituiscono la trama quotidiana delle lezioni di filosofia a scuola e sono proposte nel Concorso, proprio perché possano rioccupare con maggiore centralità e ampiezza il ruolo che spetta loro nella formazione delle giovani generazioni e nella riflessione matura degli adulti. Il presente testo nasce dal Concorso 2018 sul tema: La natura del bello. Il 16 e 17 marzo, a Roma presso l’Angelicum, si sono infatti tenuti alcuni interventi di grande spessore e gli Age contra, oltre naturalmente alle premiazioni finali. Il volume non vuole limitarsi a riproporre il già visto, così da documentarlo, ma cerca soprattutto di offrire del materiale che consenta, a diversi livelli di approfondimento e da molteplici angolature, di rimeditare il tema del

1. Cfr. Prefazione, in M. Ferrari e G.P. Terravecchia (a cura di), Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni, Itaca, Castel Bolognese (ra) 2014, p. 3. Cfr.: http://lebotteghedellinsegnare.diesse.org/ filosofia. Le lezioni della Bottega sono pubblicate anche sul portale http://webtv.loescher.it. La Bottega di Filosofia è coordinata da Marco Ferrari e fa parte del progetto “Le Botteghe dell’insegnare” a cura dell’associazione Diesse.

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La natura del bello

bello. Anche quest’anno, il Concorso ha ricevuto l’attenzione del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, che ha inviato ai partecipanti un saluto di cui, grati, riportiamo il testo integrale. La prima parte del presente volume raccoglie alcuni degli interventi dei relatori della due giorni, cioè quelli di Sergio Givone e, nella forma di una intervista, Giuseppe Frangi, secondo l’ordine in cui sono stati tenuti. Per tutte le lezioni della due giorni finale (cioè quelle di Sergio Givone, Giuseppe Frangi e Costantino Esposito) rimandiamo al sito web e al canale Youtube di rd2. Ai materiali qui pubblicati si aggiunge un altro contributo, quello di Elio Franzini, messo per primo perché ha aperto con autorevolezza l’anno di lavori del Concorso. La seconda parte si apre con un intervento del direttore del Concorso, Marco Ferrari, che spiega le ragioni del tema scelto per l’edizione 2018 e racconta le diverse fasi del lavoro svolto durante l’anno. Infine, oltre a offrire le informazioni sui vincitori delle varie categorie, raccoglie i materiali vincitori del Concorso. Quanto alla scelta sulle modalità di pubblicazione delle tesine, è opportuno chiarire le ragioni che, anche quest’anno, ci hanno guidato. Quello che in un autore esperto, magari affermato, è motivo di pudore, in un giovane alle prime armi è traccia di un percorso di crescita e perciò può essere a pieno titolo motivo di orgoglio e vanto. La logica di questa parte è di presentare i testi giudicati come migliori, secondo la valutazione delle giurie didattica e scientifica. Ci siamo limitati a correggere i refusi e le mancanze formali a livello tipografico, emendando in qualche raro caso il testo per riportarlo alle intenzioni espressive originarie, con l’autorizzazione di chi lo firma. Abbiamo inoltre sollecitato gli studenti a inserire i riferimenti bibliografici che non di rado mancavano in qualche misura nel testo consegnato al Concorso. Abbiamo però conservato tutto il resto, comprese le carenze a livello espressivo, concettuale e culturale. Gli studenti che li hanno scritti vi troveranno il loro lavoro proprio così come l’hanno presentato (e non una sua versione finta e abbellita per l’occasione). Gli insegnanti potranno constatare tra le righe il molto lavoro che è stato svolto dai colleghi e il tantissimo che si sarebbe potuto fare, traendo spunto dall’uno e dall’altro. Gli studenti delle prossime edizioni del Concorso si faranno un’idea di quello che in passato è stato uno standard vincente e potranno cercare di alzare l’asticella. Ci piace pensare che un giorno qualcuno prenderà in mano anche questo quinto testo delle rd e, leggendo le tesine degli studenti, sorriderà di quanto è stato scritto dai team

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2.

Cfr. Sito web di rd: http://romanaedisputationes.com; canale Youtube di rd: https://www.youtube. com/channel/UCxmQzzh47V4dvJPFYt2t5XQ.


Introduzione

in questa edizione. Ebbene, anche in questo caso, tutti gli autori, con noi, potranno essere orgogliosi di aver compiuto un passo verso quel miglioramento. In un percorso di ricerca è normale che alcune cose non riescano al meglio, soprattutto all’inizio: se si vuole imparare a camminare, non si deve temere di cadere e anzi bisogna essere orgogliosi di quanto intrapreso, pur di non restare fermi. Il lettore dovrà comunque riconoscere che, con tutti i loro limiti, le tesine che raccogliamo presentano, ciascuna, degli elementi di merito e di interesse che noi curatori siamo lieti di pubblicare, anche a motivo della capacità che hanno avuto gli studenti di entrare con tutto se stessi dentro alle questioni, mostrandone molteplici sfaccettature e, soprattutto, il riverbero sincero che la domanda sul bello ha suscitato in loro. A fronte del tanto lavoro svolto per l’organizzazione delle rd, ci pare doveroso ringraziare, insieme agli studenti partecipanti, anche tutti i docenti e i presidi che hanno sostenuto e favorito il lavoro dei propri team, in virtù del grande impegno che le rd richiedono in termini di tempo, di studio e di organizzazione. Allo stesso modo vanno ringraziati gli illustri relatori, gli organizzatori e i collaboratori dell’associazione ToKalOn e di tutti gli enti, le associazioni e le università – in primis l’Università Cattolica di Milano, Camplus, la Fondazione rui, la Fondazione De Gasperi, la Cineteca di Bologna e l’Istituto Toniolo – che, compartecipando alla realizzazione del Concorso, hanno reso possibile la costruzione di un nuovo luminoso tassello del grande mosaico della buona scuola italiana. Desideriamo poi ringraziare alcune persone il cui contributo per la realizzazione del volume è stato prezioso: Emma Lavinia Bon, Paolo Locarno, Gabriele Laffranchi e Maria Teresa Tosetto che hanno curato la trascrizione del testo di Sergio Givone e l’intervista a Giuseppe Frangi. Infine, ma certo non per ultimo, ci teniamo a ringraziare l'editore Loescher che continua in molti modi e con generosità a sostenere il Concorso e la pubblicazione dei testi che esso produce.

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Saluto del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Roma, 16 marzo 2018 Carissime e carissimi, anche quest’anno Romanae Disputationes si conferma una straordinaria occasione di scuola oltre la scuola, un’esperienza di didattica alternativa che consente alle giovani e ai giovani di approfondire e sviscerare un tema di rilevanza filosofica, sociale e culturale, di confrontarsi su questo con docenti ed esperti, di sviluppare e potenziare la propria capacità argomentativa e la propria attitudine al dibattito. In altre parole, di educare – in maniera innovativa e complementare rispetto al tradizionale percorso scolastico – cittadine e cittadini consapevoli e attivi. Voglio, quindi, ringraziare tutte e tutti coloro che hanno permesso tutto questo, gli organizzatori, le docenti e i docenti, le studentesse e gli studenti coinvolti. In questi cinque anni di vita hanno preso parte alle Romanae Disputationes oltre dodicimila giovani. Nell’edizione di quest’anno circa mille tra studentesse, studenti e docenti ragionano sulla natura del bello, tema fulcro del concorso che si chiude a Roma in questi giorni. Questi numeri ci dicono chiaramente una cosa: questa manifestazione è stata accolta con straordinario entusiasmo, accende la passione nel mondo della scuola e dell’università, induce alla ricerca, all’azione, al protagonismo. Stimola a percepirsi come parte di una comunità, a sentirsi responsabili di se stessi e degli altri, della società in cui viviamo, delle relazioni che intrecciamo. Romanae Disputationes è un’importante iniziativa educativa. Spinge le nuove generazioni ad acquisire conoscenze e strumenti per squarciare il velo del senso comune. Porta a prendere consapevolezza dei propri strumenti intellettivi e cognitivi e ad andare a fondo nelle questioni che toccano la nostra quotidianità, per prossimità fisica, perché ne leggiamo sui giornali o vediamo scorrerne le notizie sulle bacheche dei nostri social network. Dà la possibilità alle nuove generazioni di confrontarsi anche in maniera accesa e su posizioni diverse su un tema attuale, articolato, complesso. Educa a un’at-

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La natura del bello

tività di indagine, scavo, approfondimento, dubbio, confronto affinché questa diventi modalità d’azione nella vita di tutti i giorni. Da ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca non posso che lodare il lavoro che portate avanti attraverso questo progetto. Lodare e sostenere. L’investimento che state facendo, attraverso questo, sulle nostre ragazze e i nostri ragazzi è un investimento sul futuro del paese. Siamo al vostro fianco e condividiamo con voi l’impegno. Grazie, Valeria Fedeli

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Parte prima Lezioni e conversazioni



La natura del bello di Elio Franzini

Si potrebbe prendere avvio da due esempi assolutamente, come dire, non filosofici. Il primo è un piccolo episodio del Doctor Faustus di Thomas Mann che può illuminare sulla considerazione “pubblica” dell’estetica e dei suoi cultori. Mann racconta che Helmut Institoris, oltre a essere «un dolicocefalo biondo, piuttosto piccolo di statura e molto elegante, coi capelli lisci, divisi nel mezzo e leggermente impomatati […] semplice docente del bello», aveva difficoltà a competere con chi, di fronte alla sua promessa sposa, «aveva il vantaggio dell’arte stessa, nutrice della passione e trasfiguratrice delle cose umane». Naturalmente si può immaginare come sia andata a finire: lei sposa l’estetica, ma dal momento che, come osserva maliziosamente Mann, «non era certo un piacere inebriante per una donna andare a letto con Helmut Institoris», lei diviene ben presto l’amante dell’arte, come spinta da un ineluttabile destino. La conclusione di Mann è chiara: non basta parlare del bello per affascinare; l’arte raggiunge la bellezza se è verità, originarietà, passione, fuoco trasgressivo, mentre l’estetica, in quanto sostitutivo analitico dell’originario, rischia di trasformarsi in una «esperienza di mezza felicità piuttosto umiliante», che desidera «di essere completata e verificata». Il suo oggetto è un’alterità che rimane comunque «a distanza». Il secondo esempio è tratto dal Discorso sull’estetica che Paul Valéry scrisse nel 1936. Quando egli definisce il piacere estetico, il piacere di fronte al bello, come una serie di azioni reazioni, eccitazioni sensibili che non hanno una funzione fisiologica uniforme e ben definita, costruisce una geniale formula, che mostra la strada: la definizione del bello conduce su epoche storiche, mentre per comprenderlo bisogna descriverne funzioni, effetti, contraddizioni, aporie, tutto ciò che lo rende nozione aperta e progressiva, non formula vuota e ripetitiva. La bellezza, osserva ancora Valéry, non può essere considerata una “nozione pura”, anche se essa è stata essenziale nel divenire della spiritualità occidentale, e ha segnato una metafisica che è alla base del pensiero filosofico. Platone, volendo sintetizzare, e con tutti i rischi della sintesi, opera proprio ciò che, a parere di Valéry, non andrebbe fatto, cioè separa il Bello dalle cose belle. Questa “formula”, come la Scuola di Atene di Raffaello, con Platone che volge

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La natura del bello

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il dito verso l’alto e Aristotele che lo pone verso il basso, è segno della dualità che corre attraverso la metafisica (come studio della trascendenza da un lato e come fondamento sensibile dall’altro), vale anche per il bello “estetico”: può essere nei cieli, come “idea” non sensibile, ma può anche essere idea “estetica”, che si frantuma nelle cose. Al tempo stesso, nulla vieta di cercare, ed eventualmente trovare, l’universale nel particolare, operando una sintesi felice. Queste due posizioni, tuttavia, non sono figlie della modernità, bensì fanno parte della storia del concetto e del suo rapporto con l’arte: una storia lunga migliaia d’anni, che è impossibile ridurre a pochi autori, ma che ha comunque in Platone un punto di partenza. La bellezza senza dubbio, come scriveva Valéry, non può essere considerata una «nozione pura», ma ciò non significa che proprio tale nozione sia stata essenziale nel divenire della spiritualità occidentale, segnando una metafisica che è alla base del pensiero filosofico, così ampia e ricca da non avere neppure un solo registro linguistico (infatti kalon, pulchrum, venustas si incrociano tra mondo greco, latino e cristiano). Prendere avvio da Platone è dunque un obbligo: per lui il bello ideale è un “modello” per la varietà delle cose belle che si disperdono nell’empirico, che ne sono una persistente e imperfetta traccia. Le verità di fatto non potranno mai raggiungere la perfezione assoluta della verità assoluta, ma ne saranno il perenne “ricordo”. Alcuni passi del Simposio sono chiarissimi e quasi offrono un “modello conoscitivo” che, anche in relazione alla bellezza, si può trovare dominante sino all’età rinascimentale: bisogna cominciare da «bellezze particolari» e salire sempre di più, come su una serie di gradini, verso il «bello in sé», che è un modo per “nominare” la Verità assoluta. Un discorso “astratto” sulla bellezza, ben presente nell’antichità classica, lo è tuttavia in misura inferiore a quel che si creda: il confronto con le “cose” è perenne e segna l’intera storia dell’estetica. Ne è prova il fatto che il vocabolario di ogni estetica possibile, qualunque sia la venatura teorica che assume, si forma qui, in discussioni sul bello che paiono astratte e finalizzate verso altre mete. È indubitabile, per esempio, che le qualità, certamente metafisiche, con cui Platone, in vari punti della sua opera, dall’Ippia maggiore al Simposio, definisce la bellezza, riconducendola ai principi pitagorici dell’armonia, della simmetria o della forma, mutano i loro orizzonti di significato là dove vengono applicati a oggetti naturali, a elementi sensibili o a opere architettoniche. Se il Bello platonico coincide con l’idea di Bene, ricalcandone l’immaterialità, le simmetrie di un palazzo richiedono necessariamente un’esperienza sensibile, tattile, visiva. Platone, in questo modo, si oppone alla tradizione sofistica: per esempio al Gorgia (490 ca.-391 ca. a.C.) dell’Encomio di Elena, che vedeva la bellezza come un attributo retorico del discorso, capace di costruire illusioni. Ma si allontana anche dalla visione socratica, in cui la pitagorica armonia era accompagnata da una forza demonica soggettiva, che attribuiva alle cose una magica


La natura del bello

euritmia. È invece Aristotele a richiamarsi a tali tradizioni quando, nella Retorica, parla della bellezza al tempo stesso come un valore che genera piacere e come una forma oggettiva determinata dall’ordine, dalla misura e dalla simmetria. Si può dunque affermare che, come ben vedono le scuole stoiche, la visione greca della bellezza ondeggia tra la simmetria, d’origine pitagoricoplatonica, e un più duttile decorum, che avvicina il bello al piacere, alla morale pratica o all’utilità. È tra questi ondeggiamenti che si delineano due posizioni destinate a segnare l’intera storia del concetto. La prima tra esse segna al tempo stesso una svolta. Nel i secolo a.C., in età augustea, l’architetto Vitruvio scrive un ampio trattato, il De architectura, che non ebbe grande risonanza alla sua epoca, anche se fu essenziale per l’età rinascimentale, e in primo luogo per Leon Battista Alberti. Né si può sospettare un influsso diretto sul De architectura di temi platonici, anche se l’esigenza di una perfezione formale dell’edificio non può non risentire di un clima dove le teorie di Platone sono culturalmente efficaci o almeno derivano dal suo evidente richiamo a luoghi comuni pitagorici, cui molto deve ogni teoria della bellezza. Sul modello musicale si afferma infatti che un edificio deve rispondere a un principio “superiore”, che è quello della simmetria, che consiste nell’accordo armonico tra loro delle parti dell’opera e nella loro corrispondenza con la configurazione complessiva. Vi è nella costruzione di un oggetto bello l’esigenza di ordine, che deriva da una corretta disposizione delle parti, che si traduce in euritmia, simmetria, convenienza e distribuzione. Il fine è la venustas, cioè la bellezza, che sarà evidente nel momento in cui l’opera avrà un aspetto piacevole ed elegante e le proporzioni tra i suoi elementi seguiranno i corretti rapporti modulari. Questo legame oggettivo tra bellezza e proporzione, che origina risultati armonici, euritmici e simmetrici, va dunque alla ricerca di un principio ideale, ma al tempo stesso concreto, che rimane uguale a se stesso pur nella varietà delle costruzioni. La bellezza che così si raggiunge non è legata alla singolarità dell’opera, che è tale se, e solo se, i suoi criteri di costruzione rispondono a principi oggettivi e sincronici, capaci però, al tempo stesso, di emozionare, di generare trasporto sentimentale. Per cui la bellezza, nella sua oggettività sia ideale sia empirica, costruisce un disegno comunicativo generato dal modello della tradizione retorica, in cui peraltro, a suo modo, anche l’opera vitruviana si inserisce. La bellezza ideale si oggettiva solo perché esiste un principio di “bello in sé”, ugualmente oggettivo nella sua idealità. E questa realtà oggettiva e ideale ha la sua retorica, si comunica cioè generando emozioni nell’osservatore. Emozioni che generano il giudizio sulla bellezza. La seconda direzione conduce al ii secolo d. C. e si riferisce alle Enneadi di Plotino, che è invece esplicitamente riconducibile a Platone. Anche in questo caso il problema è dare una “oggettività” alla forma, legando in un percorso ascensionale il sensibile e il divino. Per Plotino, infatti, l’arte infonde alla ma-

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La natura del bello

teria una “forma” che la rende “bella”. Tale infondere la forma – e la sua eternità – alla materia non è tuttavia un processo mimetico dal momento che anche la natura «imita qualcos’altro» e, soprattutto, «le arti non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono ai principi razionali da cui deriva la natura»1. Le immagini, le “icone” (eikona), derivano dall’Intelletto e hanno, come compresero gli egizi, una forma «di scienza e sapienza» diversa dal pensiero discorsivo: mettono in relazione con un sapere archetipico, che è contemporaneamente essere e forma. A partire da questo archetipo, da questa “icona”, si dirige l’ammirazione «verso il modello di ciò che è stato creato»2. L’immagine ha allora, anche nei confronti della parola, un ruolo essenziale: essa «imita in tutto l’archetipo: come imitazione possiede la vita, ciò che è proprio dell’essere e l’esser bello, derivato da lassù; possiede inoltre l’eternità del modello, il modo di un’immagine»3. Ciò, come già si è accennato, segna anche l’arte cristiana, rende possibili e lecite le immagini pittoriche, e dunque la traduzione concreta del Bello in forme empiriche, retoriche, narrative: le immagini non vengono adorate nel loro “in sé” e quindi non conducono verso una pericolosa idolatria. Infatti, dopo l’avvento di Cristo, nel momento cioè in cui si è aperta una nuova era, in cui è iniziato un nuovo tempo, la maledizione di Mosè contro l’adorazione di immagini, conseguenza della costruzione blasfema di un vitello d’oro da parte del popolo ebraico, deve essere superata o, meglio, perfezionata in una direzione che utilizzi le immagini per educare il popolo di Dio. Si può così arrivare a una prima conclusione. Se infatti il pensiero cristiano assume e tramanda una visione “divina” della bellezza, che aspira a un bello assoluto e ideale, non dimentica tuttavia, in sintesi, la dimensione sensibile, il suo eros, la sua forza erotica, la sua stessa sensualità e retoricità. Parlando dell’amore verso Dio, nelle sue Confessioni (10, 6), Agostino d’Ippona riassume con grande efficacia retorica questo atteggiamento, in forma di preghiera: Che ti amo, Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo. Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti. Ma che cosa amo amandoti? Non una bellezza corporea né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele; non membra invitanti ad amplessi carnali. Amando il mio Dio, non amo queste cose. E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo e un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può di-

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1. 2. 3.

Si cita qui dall’antologia Plotino, Il Bello intellegibile, a cura di C. Guidelli, il melangolo, Genova 1989, p. 19. Ivi, p. 37. Ivi, p. 49.


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sperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

L’oggettività metafisica della bellezza diviene consapevolezza che il bello, pur nella sua emotività, non può essere abbandonato all’arbitrio soggettivo. È una qualità reale, presente nelle cose stesse, anche nella loro derivazione metafisica, che non si riduce alle nozioni “classiche” di armonia e simmetria, ma che al tempo stesso non sa allontanarsi da esse, riportando in primo piano un’idea di “ordine” e “misura” che accompagnerà nei secoli il concetto di bello. Queste qualità empiriche sono fondate – ed è il perenne retaggio platonico – su una bellezza spirituale: se anche essa si manifesta tramite i sensi, il suo afferramento pieno potrà avvenire solo attraverso una sorta di intuizione intellettuale, che fa accedere al principio originario della Forma. Pur gravitando in tale quadro, l’estetica cristiana non può essere riassunta con facilità. Scoto Eriugena (ix sec.), Severino Boezio (480-526), Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), o le posteriori metafisiche della luce, riprendono con vari accenti, influenzati anche dal Corpus dionisiacum, il paradigma agostiniano, accentuando il carattere spirituale del bello. Non mancano tuttavia nel mondo medievale altre impostazioni, che riportano all’altro lato della definizione del bello: infatti Ugo di San Vittore (1096 ca.-1141), nel suo Didascalicon, non solo mostra di apprezzare la bellezza sensibile ma anche ne elenca chiaramente le principali qualità, legate alla posizione e alla specificità spazio-temporale degli oggetti ritenuti belli. È comunque su questo secondo asse che si definirà un’altra importante posizione medievale, che ha per protagonista Tommaso d’Aquino (1225-1274) e che parla dalla bellezza a partire dalla nota formula pulchra sunt quae visa placent, in cui il termine “visione” va assunto in un’accezione estremamente ampia. Anche in questo caso, tuttavia, vengono riproposte le nozioni centrali che tradizionalmente accompagnano la bellezza, in una sintesi che ne salva la complessità rispettandone anche le molteplici tradizioni. Infatti, pur mantenendo una sostanziale affinità tra bello e bene, Tommaso sostiene che il bello si riferisce non alla causa finale, come il bene, bensì alla causa formale: entra così, in quanto immagine, in una dimensione conoscitiva, come proporzionalità che procura diletto ai sensi, una delectatio che attraverso la vista e l’udito (cioè i sensi più vicini alla ragione) è suscitata dalle qualità stesse dell’oggetto, cioè dalla proportio, dalla claritas e dalla integritas. Questa visione “proporzionale” della bellezza, che ne riprende l’ordine simmetrico legandolo all’esperienza soggettiva, non è storicamente limitata a una dimensione teologica: è piuttosto il segno di un punto di vista aristotelico che persiste, proseguendo anche nel Rinascimento italiano (e infatti lo si può riscontrare, per esempio, in Leonardo da Vinci). Nel momento in cui il pensiero si deteologizza, non viene tuttavia meno l’impianto che connette arte e bellezza. Lo dimostra la voce “Bello” dell’Enci-

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clopedia, che è un utile repertorio dei temi antichi, coniugati in senso “moderno”, ma senza perdere i legami con la tradizione, e in primo luogo con quella definizione classica, derivata da vari autori, e tra essi Agostino, che definisce la bellezza come «unità nella varietà». Formula fortunata e, come suol dirsi, da “mandare a memoria”, essendo il modo in cui e attraverso cui la cultura della bellezza attraversa i secoli: è un modo per definire la forma, per coniugare particolare e universale, per ammettere la coesistenza di unità e differenza. Ed è definizione che “funziona” sia in prospettive metafisiche sia in un quadro empirico e in tutte quelle non sempre lucide “commistioni” che vedono la luce tra Seicento e Settecento. Il Settecento è stato il secolo in cui maggiormente appaiono le concezioni della bellezza. Un repertorio veloce sarebbe una sequenza di nomi e di date. Nella prima direzione un ruolo essenziale è svolto, tra Seicento e Settecento, dalla querelle des Anciens et des Modernes. Il suo principale iniziatore, il partigiano dei Moderni Charles Perrault, sostiene, nel Paralléle des Anciens et des Modernes (1688), che gli Antichi si riferivano a una bellezza arbitraria, fondata esclusivamente sull’abitudine a determinate proporzioni. Solo i Moderni, invece, sono in grado di coglierne l’oggettività e la permanenza, il senso che prescinde dalle scelte storiche o psicologiche. Su questa strada, all’interno di una polemica sugli aspetti sentimentali del bello, si possono porre anche autori quali Charles Du Bos (16701742) e Charles Batteux (1713-1780), che ritengono come il legame tra la bellezza e l’arte vada connesso alla forza emozionale ed espressiva dei soggetti. Forza che, osserva Du Bos, manifesta la superiorità degli Antichi, di fronte alle cui opere permane, al di là dei mutamenti storici, l’energia di una passione originaria. Ma accanto alle polemiche esiste anche una corrente “cartesiana”, che vuole utilizzare il metodo analitico per determinare, in modo chiaro e distinto, «i caratteri reali e naturali della bellezza». Queste parole si leggono nel Traité sur le Beau (1714-1715) del ginevrino Jean Pierre Crousaz, cui si può accostare l’Essai sur le beau di Yves Marie André (1675-1764): il primo, in particolare, riprendendo la formula utilizzata da Leibniz per definire l’armonia, parla della bellezza come «uniformità nella varietà». Definizione che, come già si è rilevato, ebbe grande successo e fu ripresa anche nel mondo anglosassone, almeno nella corrente dominata dall’influsso di Lord Shaftesbury (16711713), che individua nell’uomo un senso specifico che lo conduce verso una bellezza che è armonia e proporzione, immagine del vero e del bene. Sulla sua scia Francis Hutcheson (1694-1746), nella sua Enquiry into the Origin of our Ideas of Beauty and Virtue (1725), oltre a definire, come Crousaz, il bello, ne cerca l’assolutezza attraverso il reperimento di suoi caratteri “universali”, che ancora una volta riconducono agli antichi principi della regolarità, dell’ordine o dell’armonia, che raccolgono il diverso nell’unità di una forma originaria. È tuttavia soprattutto l’influsso della filosofia empirista, e in particolare


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di Locke, a segnare un nuovo, anche se frastagliato, orizzonte per la bellezza. Oltre che ai Pleasures of Imagination (1712) di Joseph Addison (1672-1719), ci si può richiamare al saggio di Edmund Burke (1729-1797) A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757), che connette la bellezza alla specificità esperienziale di un sentimento, legato alla dimensione del piacere, positivo e amorevole della bellezza. Ma anche al di fuori del mondo culturale inglese, la forte traccia dell’empirismo è visibile là dove, con Denis Diderot, nella voce “Bello” che nel 1751 scrive per l’Enciclopedia, opera per la prima volta una vera e propria “storia” del concetto di bellezza, che parte da Platone e Agostino per giungere all’esame critico delle dottrine dei contemporanei. La bellezza classica e oggettiva non può dunque non confrontarsi con la forza organica della natura, con l’autonomia del giudizio, con differenti modelli di costruzione di “idee complesse”. Affrontando i fenomeni artistici, il bello non è un fenomeno soltanto contemplativo, bensì risulta legato alla natura, alla società, alla storia, al “sentire” in tutte le sue manifestazioni. Lo spirito non vuole presentarsi in modo “oggettivo”, ma secondo le linee dove vi siano emozione, varietà, differenza. Il “classico” acquista uno spessore nuovo, diviene, in modo paradossale e ossimorico, “moderno”. Si pensi a quella linea del pensiero tedesco che prende avvio con Winckelmann: la ricerca della bellezza classica, che viene definita come «uno dei grandi misteri della natura», segue un impianto storico, ma ha anche una forte ascendenza retorica che risente sia del sensualismo del partito degli Antichi, sia del naturalismo rinascimentale e moderno, che la fa divenire grazia, bellezza mobile, quasi casuale. Al di là della sua grande capacità descrittiva, Winckelmann pone un modello di bellezza insieme spirituale e corporea che avrà straordinario successo, cioè il gruppo marmoreo del Laocoonte, simbolo di una “idealità sensibile” del bello: nel dolore del suo volto si coglie l’espressione di un’anima che sa sopportare la sofferenza, espressione che «va ben oltre la creazione della bella natura». Accanto al dolore è rappresentata la nobiltà dell’anima che sa controllarlo: un’azione che in tale dolore è il più vicino possibile alla tranquillità, in modo che l’anima stessa si presenti come “quieta e attiva”. Partendo da questi presupposti, Diderot critica l’assimilazione che l’allievo di Leibniz, Christian Wolff, aveva operato tra bellezza e perfezione: strada su cui si porrà anche Gottlieb Baumgarten (1714-1762), che all’estetica diede il nome, il quale aveva tuttavia una visione più complessa e articolata della bellezza, che è certo un “accordo” ma all’interno di una dimensione radicata nella sensibilità, nelle sue parti sottili e confuse. Il legame esplicito istituito da Baumgarten tra una dimensione estetico-sensibile e quella di uno specifico ambito conoscitivo, oltre all’importante significato storico, inciderà anche nel momento in cui, esplicitamente nel pensiero tedesco, il piano “estetico” viene applicato alla bellezza artistica, che ne diviene il privilegiato banco di prova. Qui

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i sensi soggettivi entrano in relazione con la bellezza, esercitando in questo contatto la loro forza sensuale e i poteri dell’immaginazione. È evidente che queste visioni hanno in Kant un punto culminale, che ne assume la tradizione, ma che non la sintetizza, conducendola invece su un nuovo piano. La concezione kantiana della bellezza manifesta una nuova duplicità per questo concetto, che da un lato prosegue le discussioni settecentesche ma che dall’altro si apre a quei caratteri simbolici che dominano la prima stagione romantica. La bellezza non è per Kant un campo che possa venire sottomesso a un giudizio scientifico bensì l’orizzonte sentimentale di un giudizio di gusto soggettivo e disinteressato, distante dalla morale quanto dalla conoscenza, con un’esclusiva finalità formale. Tuttavia, accanto all’analitica del bello, che lo riconduce a un sentimento soggettivo, pur fondato sul piano trascendentale di un giudizio, Kant inserisce elementi che ne allargano il significato. Non esiste infatti solo una bellezza libera e disinteressata, accostata alla natura e ai suoi prodotti, ma anche una bellezza “aderente”, dove il piacere soggettivo è legato a un’idea di scopo. Vi è poi una bellezza artistica: bellezza che attraverso la nozione di genio, talento naturale che dà la regola all’arte, Kant riporta al mondo della natura. L’attività del genio produce ciò che Kant chiama «idee estetiche», dove il legame tra la sensibilità e la ragione suscita di fronte all’opera non una sola rappresentazione, mimetica o definitoria, bensì molteplici rappresentazioni, sempre irriducibili a qualunque verbalizzazione normativa. Il bello è dunque inserito da parte di Kant in un contesto complesso, al tempo stesso soggettivo, formale, naturalistico, teleologico, morale, artistico e geniale: si presenta dunque non come un territorio autonomo e autosufficiente ma come uno “spazio soggettivo” in cui liberamente si esercita la capacità di giudicare dei soggetti. La complessità della Critica del Giudizio, in cui si incrociano, in un nuovo linguaggio, e soprattutto in un nuovo contesto, tutti i temi tradizionali della bellezza, non solo settecenteschi, genera un ulteriore ampliamento dei suoi orizzonti, irriducibili ormai a qualsivoglia volontà definitoria. La bellezza è piuttosto il piano in cui il senso simbolico dell’arte acquista uno spessore conoscitivo, etico e sociale. La bellezza è il sigillo dell’arte, il suo contenuto di verità, la sua tensione verso un significato filosofico che sfugge a una rigida verbalizzazione concettuale. Nel Romanticismo non esiste neppure il tentativo di “definire” la bellezza: qualunque esigenza normativa è vista infatti come un’impropria volontà di razionalizzazione, che ne tradisce l’intrinseca verità. Il bello non è un gioco formale, tantomeno la ricerca di una regolistica misura o la ricerca di una perfetta imitazione della natura: è un ideale filosofico che viene inseguito allargando attraverso l’arte il tradizionale spettro espressivo della filosofia, nel tentativo, a volte utopicamente fondato, di rivederne le possibilità semantiche. La bellezza si ammanta in Schiller di spes-


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sori etici o in Goethe diviene l’immagine di un impulso costruttore che vuole evidenziare la divinità dell’uomo stesso: è la bellezza di Elena, una bellezza in movimento che sia Schiller sia Goethe chiamano «grazia». La grazia è una bellezza attraversata dal caso, una bellezza in cui non domina un’astratta necessità bensì la libertà della creazione, dell’impulso costruttore. La bellezza dei romantici è forse in primo luogo modellata dalla grazia di Goethe. Ma va sottolineato che essa è essenzialmente un concetto bicefalo: per cui, accanto alla sua dinamica misura, e alla sua forza classica di riconciliazione del diverso, si sottolineerà in essa, per esempio in Solger, la potenzialità tragica che rivela attraverso la vita spirituale dell’arte. In questo modo il bello diviene la bellezza magica di Novalis, che raccoglie in sé la forza misterica della natura, l’ascetica artisticità del tempo in Wackenroder, il simbolo storico del divenire della divinità nelle cose per Schlegel, l’incontro assoluto della filosofia e dell’arte per Schelling, la tragedia dell’intuizione intellettuale per Hoelderlin. La verità e la bellezza, come insegna Novalis, coincidono – e coincidono sul piano di una natura attraversata dalla forza geniale e produttiva del poeta. Questa temperie problematica, in cui la bellezza è una realtà simbolica dove la poesia è l’incontro del genio con i misteri, o le tragedie, della natura e della storia, è in qualche modo emblematicamente chiusa dall’Estetica di Hegel, in cui il bello è definito, in netta polemica con Kant e nel quadro di una sistematicità antiromantica, nella cui stagione Hegel vede la massima “soggettivizzazione” della bellezza, come la forma sensibile dell’Idea. Il bello può essere soltanto artistico poiché l’Idea incarna il suo contenuto spirituale in forme storico-sensibili, articolandosi in uno sviluppo che passa attraverso forme simboliche, classiche e romantiche. Ed è proprio nell’arte romantica che Hegel introduce il tema della morte dell’arte, segno estremo di uno squilibrio tra il contenuto spirituale dell’arte e le sue forme: squilibrio che conduce verso la banalizzazione dell’arte stessa, ormai incapace di esibire la genesi spirituale della civiltà. Non è dunque un caso che sia su questi esiti che si innesta la riflessione di Adorno. Con un uso assai accorto del sublime di Kant, della morte dell’arte di Hegel, dei manoscritti giovanili marxiani, dei consueti aforismi benjaminiani, accostati all’immancabile Baudelaire, Adorno vuole mostrare come la “frattura” sia il sigillo di autenticità del pensiero moderno, una frattura che ovviamente, con paradigma più volte ripetuto nelle sue opere, rigetta l’organicità del rapporto tra pensiero e scienza, presentando la filosofia come lo strumento che disegna il quadro apocalittico di un percorso che ha soltanto nella contingenza storica il suo referente. Non si possono qui discutere i limiti intrinseci di una posizione di tal genere, ed è più interessante osservare come tale frattura venga esplicitata, pur senza mutare le modalità argomentative, anche nelle forme artistiche e nella

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loro bellezza. Forme che tuttavia indicano una strada di uscita, delineata secondo i modi della dialettica negativa. Adorno, in questa operazione, si comporta secondo uno schema hegeliano: la specificità storica e fenomenologica delle forme artistiche è del tutto sacrificata alla potenza comprensivamente dialettica della filosofia della storia, che pone le opere in un contesto che ne disvela l’intimo senso. Il realismo rispecchiante di Lukacs, o qualsivoglia altra arte conciliante, empatica, formalmente pacificata sono dunque i suoi obiettivi polemici. Viene invece esaltata – è qui che Beckett ha un ruolo essenziale – la forza di rivolta, e dunque di riscatto tormentato, che l’arte come maceria, rovina, rottura, sfacelo può assumere nella contemporaneità. L’arte che genericamente Adorno prende a modello è quella delle Avanguardie, e in particolare dell’Espressionismo, da lui ritenuto, come nell’intera sua opera estetica, più un urlo straripante od oggettivante che un movimento con i suoi precisi confini storici e poetici. Beckett, insieme a Schoenberg, è dunque considerato come il paradigma di quell’arte in cui – e sono parole riferite proprio a Beckett – «il momento caotico e la spiritualizzazione radicale convergono nel rifiuto della piattezza delle idee levigate che ci si fanno dell’esistenza»4. Quest’arte può offrire alla filosofia l’enigma di un nuovo contenuto di verità attribuibile alla bellezza. Infatti, aggiunge Adorno, e sempre in un passo dove è presente Beckett, «l’aprirsi storico delle opere attraverso la critica e l’estrinsecarsi filosofico del loro contenuto di verità stanno in interazione»: «alla teoria dell’arte non è consentito porsi al di là di quella interazione; al contrario deve abbandonarsi alle leggi di movimento di questo»5. Nella Francia distrutta dalla guerra, Beckett, in un intervento radiofonico, vede un’umanità decaduta e scorge nel processo artistico una testimonianza di questo sfacelo: «la vecchia disaminata mente sprofonderà dentro la sua rovina» scrive di fronte alle macerie della cittadina di Saint Lo distrutta (e sono, peraltro, gli ultimi versi che scriverà in inglese)6. Sembra quasi, dunque, che, anche per esperienze biografiche, o meglio scorgendo in esse un segno dei tempi frantumati, Beckett prenda le mosse dalle rovine, interiori ed esteriori, trasportando questo fisico disfacimento entro la propria lingua. Significa inoltre dare un senso formale alla rovina affermare, come in Sovrapposizioni, che far balbettare un linguaggio significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici, sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua. Fare buchi nella lingua, sottoporre la lingua madre allo smembramento è un modo per rendere forma, e opera, i segni dello sfacelo,

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4. 5. 6.

T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, Einaudi, Torino 1977, p. 160. Ivi, p. 217. La citazione dal testo radiofonico La capitale des ruines è ripreso da E. O’Brien, Samuel Beckett et le poids de la compassion, nel fascicolo monografico di “Critique” (1990, pp. 519-520) dedicato a Beckett.


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conducendo Beckett verso quel quadro in cui un filosofo come Deleuze lo potrà accostare ad Artaud e Francis Bacon. In questo quadro, afferma Adorno, autori come Hoffmanstahl, Rilke, Pound, Eliot, Beckett, Brecht, Schoenberg, Picasso o Klee sono voci diverse dove però unitariamente si coglie che «i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale; l’esplosione è una delle invarianti dell’arte moderna. L’energia antitradizionalistica diventa un turbine che tutto inghiotte»7. Arte e bellezza, dunque, rifiutano il modello empatico e cercano di aprire una nuova strada verso il simbolico, una strada in cui non si verifica l’elogio della maceria, ma il frammento «è quella parte della totalità dell’opera che resiste alla totalità stessa»8. Vi è, a questo proposito, una splendida pagina di Beckett, tratta dal suo saggio su Proust: «Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare con i mobili». E aggiunge: «per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione»9. Arte e bellezza, a parere di Adorno, divengono la più autentica disciplina dell’intellettuale, quella che, nei Minima Moralia, gli fa scrivere che «la solitudine più scrupolosa è la sola forma con cui può conservare un’ombra di solidarietà. Ogni collaborazione, ogni umanità di rapporti e di partecipazione non è che una maschera per la tacita accettazione dell’inumano. Non si deve simpatizzare con gli altri che nella sofferenza; il più piccolo passo verso le loro gioie è un passo verso l’indurimento della sofferenza»10. In questo modo, attraverso Beckett, Adorno opera un rovesciamento consapevole di quell’ideale “classico” dell’arte che Alberti incarnava con la parola amicitia. Al contrario, Adorno ritiene che il linguaggio possa giungere a una sua paradossale forma comunicativa solo spezzando una comunicazione “amica”, dal momento che un linguaggio comunicativo «postula, già da solo con le sue forme sintattiche, con la logicità, con le deduzioni, e i concetti ben saldi, le tesi della ragion sufficiente»11. Nel momento in cui, seguendo questa tesi, ogni domanda è divenuta solo retorica, il linguaggio, come Beckett attesta, si polarizza allo stadio della sua 7. 8. 9. 10. 11.

Ivi, p. 40. Ivi, p. 66. S. Beckett, Proust, Sugarco, Milano 1994, p. 69. T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1968, p. 234. T.W. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino 2012, p. 293.

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decomposizione. In questo modo, identificando comunicazione e ragion sufficiente, Beckett diviene per Adorno il profeta di un pensiero che ha rinunciato al senso attraverso l’arte: è la letteratura dell’assurdo e della incomunicabilità a spezzare il principio leibniziano che deve pur esservi una ragione se le cose accadono, con tutto il loro spettro di possibilità. E il linguaggio è il modo per “trovare” le ragioni, e i vincoli che le uniscono, costruendo catene di descrizione e di spiegazione. Il rifiuto di questo modello è il rifiuto di una forma di filosofia destinata a comunicare un senso e a trovare le regole che conducono alla conoscenza delle cose. È vero, come è stato scritto12, che se anche Adorno voleva dedicare a Beckett la sua Teoria estetica, non è lui il più stretto interlocutore, bensì gli artisti teorici della propria arte come Valéry o Schoenberg: tuttavia Beckett rappresenta un ben preciso modo per dire che la filosofia non deve avere la pretesa di costruire catene di ragionamenti, e deve piuttosto cercare la sua verità in forme artistiche che spezzino tale comunicazione in lacerti linguistici capaci solo di presentare le frammentarie forme di vita che un linguaggio, al tempo stesso presentativo e vietato, è capace di offrire. Anche nell’esibizione della rovina si va dunque al di là della rovina, con la paradossale forza viva di un’immaginazione morta: «Da ogni parte non una traccia di vita, voi dite, bah, e con questo, immaginazione mai morta, ma sì, appunto, immaginazione morta immaginate»13. Immaginare un’immaginazione morta, oltre Adorno e le mistiche della rovina e dello sfacelo, significa infatti non cedere alla dialettica e ai suoi frammenti, bensì cercare nelle rappresentazioni – nelle rappresentazioni artistiche – quella ragion sufficiente che rende ancora possibile la parola. Ed è, quindi, un’altra forma dell’amicizia. Si potrebbe andare oltre, in una varietà di posizioni che nel Novecento rischia una frammentazione assoluta. Ma è tempo forse di trarre alcune conclusioni. Anche quando il bello scopre la sua “caducità”, è questa stessa scoperta a vietarne una definizione rigida, assoluta, categorica, normativa. Tuttavia, come è scritto in un appunto di Freud del 1913, che sembra sulla scia di Nietzsche e Schopenhauer, la caducità del bello non implica un suo svilimento, ma, al contrario, ne aumenta il valore, dal momento che «il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo» e «la limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio». Il lutto che la scomparsa, l’indefinibilità della bellezza, l’indeterminazione spazio-temporale porta in sé, è un grande enigma: ma è un enigma che non uccide la bellezza, bensì ne fa sentire l’esigenza di ricostruire un rapporto con le cose, forse caduco e mor-

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12. E. Tavani, L’apparenza da salvare. Saggio su Adorno, Guerini, Milano 1994, p. 162. 13. S. Beckett, Immaginazione morta immaginate, Einaudi, Torino 1968.


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tale, ma di cui proviamo profondo e autentico bisogno. Il paradosso è dunque che, da questa non definizione, da questo rifiuto di ridurre la bellezza a una norma del pensiero e della storia, a un’idea di “classico” o di forma – dionisiaca o apollinea che sia – abbiamo quasi inconsapevolmente ricavato una duplice conclusione, molto più definitoria di quanto non appaia, e direttamente legata al nostro tema. Andando alla ricerca di un’epica anche per la vita moderna, e i suoi motivi sublimi, Baudelaire ricorda nel Salon del 1846, che «siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordine delle cose». L’ordine delle cose impone la specificità della bellezza, che trova qui, in forme nuove, la sua “essenza”, quella sua radice precategoriale che sempre si è incontrata nella sua storia, che la rende il “simbolo” del rapporto estetico con il mondo e la storia stessa. La bellezza “moderna” non è una bellezza assoluta ed eterna, che non esiste, che forse non è mai esistita, bensì qualcosa che ha in sé elementi eterni ed elementi transitori. Bisogna aprire gli occhi sull’eroismo della vita moderna e della sua bellezza, guardando «lo spettacolo della vita elegante e delle innumeri esistenze vaganti che si aggirano negli ipogei di una grande città – criminali e puttane mantenute»14. Parigi, capitale del xix secolo, inaugura una bellezza che ha in sé, nella sua contingenza, quella eternità simbolica che sempre è stata la sua essenza. La genesi del bello dimostra così, al suo tramonto, quel che era già alle sue origini: non vi è una storia unica, né un’unica conclusione, bensì una variata fenomenologia di un nome che è “simbolo”, unificazione aperta di concetti diversi. Il bello è stato, ed è, un modo per determinare il senso di una forma che non si chiude in se stessa, ma sempre si pone come “struttura di rinvio”, alla ricerca di una relazione organica tra visibile e invisibile. In grado, anche, di favorire la comunicazione tra i soggetti, l’articolazione di giudizi capaci di connettere lo spirituale e il corporeo, le tematiche produttive del genio e i fenomeni ricettivi del gusto. Il bello, nella sua varietà, è stata la manifestazione della ricerca di un senso assiologico della natura, dell’arte e dei processi di loro conoscenza: ha indicato che l’estetica non si disperde in forme contingenti ma, anche loro tramite, è ricerca di un fondamento che non annulla i suoi oggetti nella varietà e nella contingenza, ma coglie in essi un processo di donazione di senso. Processo che è aporetico, e che vede nella modernità solo l’autocoscienza di un elemento da sempre essenziale del concetto di bello: non astratta chiusura di un cerchio – in un essere o in un giudizio – ma consapevolezza che le forme belle non sono giochi casuali, bensì attestazioni di un senso precategoriale che ne attualizza le condizioni di possibilità.

14. C. Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1980, p. 122.

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Per Benjamin la bellezza ha perso la sua aura nell’età della tecnica. Però essa manifesta il grido dell’uomo moderno, la potenza del negativo che erompe. Sembra un valore che non denota più il concetto di forma. Il bello, per usare un’espressione di Pavel Florenskij, nella Prospettiva rovesciata, negli anni Venti del Novecento, esige una policentricità della rappresentazione: «il disegno è costruito come se l’occhio guardasse le varie parti di questo cambiando di posto»15. La bellezza non è il luogo dell’inganno, ma, anche quando usa il «trucco», «è, o per lo meno vuole essere, innanzi tutto, verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita ad indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà»16. Riproduce «nello spirito l’immagine di nuovo prolungata nel tempo di una rappresentazione che scintilla e pulsa, ma ora più intensa e più compatta dell’immagine derivante dalla cosa stessa, poiché qui i momenti più splendenti, osservati asincronicamente, sono dati allo stato puro, già concentrati, e non richiedono un dispendio di sforzi psichici per fonderli senza scorie»17. Qui, come scrive Klee, l’oggetto «si dilata al di là del proprio fenomeno, dal momento che noi conosciamo il suo interno, e sappiamo che la cosa è più di ciò che la sua apparenza dà a vedere»18. Si accede a quella che nei primi anni del Novecento, il pittore Franz Marc definiva “seconda vista”, che è la vista con cui, sempre di nuovo, si può scorgere il bello: non come idea lontana, ma in quanto modo per meglio osservare, descrivere, riprodurre la qualità degli eventi del mondo. Infine, in un mondo che sembra pervaso da una bellezza senza spessore, legata solo all’apparenza, e non alla profondità dell’invisibile, che destino, che speranze vi sono per questo concetto? In questo tempo della povertà, come lo ha chiamato Hoelderlin, in cui gli dei sono fuggiti e Dio sembra sempre più assente, come recuperare il concetto di bellezza? Forse ricordando che, per essere pieno, tale concetto deve avere in sé quello di beatitudine. La beatitudine, scrive Spinoza, «non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa; e noi non godiamo di essa perché reprimiamo le libidini, ma, al contrario, perché godiamo di essa possiamo frenare le libidini». La beatitudine è, scrive Spinoza, amore per Dio – amore con cui Dio ama se stesso, non in quanto infinito, ma in quanto «può essere manifestato attraverso l’essenza della mente umana, considerata sotto specie di eternità». La beatitudine è dunque l’essenza comune tra uomo e Dio, confronto tra il piano antropologico e quello trascendente e, al tempo stesso, consapevolezza che la conoscenza ha “gradi”, e che la

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15. 16. 17. 18.

P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi, Roma 1990, p. 82. Ivi, p. 82. Ivi, p. 132. P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, vol. i, Feltrinelli, Milano 1970, p. 76.


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letizia di questa conoscenza passa attraverso una genesi erotica che conosce elementi bassi e poveri, che sono il conatus verso l’accrescimento dell’essere. In quello scritto di frate Francesco noto come Testamento vi sono forse parole da cui ripartire: «Il Signore così diede a me, fratello Francesco, di iniziare a fare penitenza, poiché, essendo nei peccati, mi sembrava troppo amaro vedere i lebbrosi. E lo stesso Signore mi condusse in mezzo a loro e feci misericordia con loro. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi si trasformò in dolcezza di animo e di corpo. E poi un poco ristetti e uscii dal secolo»19. Francesco sta qui ricordando, dopo vent’anni, quel che accadde nel 1205, anno in cui entrò in contatto con i lebbrosi. Qui comprende, come scrive Giovanni Merlo, che «la degradazione corporea di individui colpiti da una malattia devastante mette la persona “sana” davanti a un dilemma solenne. La lebbra si fa enigma, ma nel contempo viatico per arrivare a comprendere il mistero dell’Incarnazione di Dio. Per Francesco, figlio di Pietro di Bernardone, i lebbrosi sono tramiti privilegiati per interrogarsi e per porsi di fronte all’evento del Dio che, incarnandosi, ha dato e dà senso persino alla degradazione fisica dei malati di lebbra»20. Francesco ha bisogno, per uscire dal secolo, di essere consapevole della povertà e della miseria del corpo, di sentire il corpo: non il corpo trionfante nella bellezza della forma, ma quei corpi che sono per lui un segno concreto del divino. È la povertà della bellezza che gli permette di comprendere l’Incarnazione di Cristo. Ma questa scelta corporea non è la scelta nichilista verso un’assenza né l’estetistica opzione per una necessità ineluttabile, bensì un conformarsi alla realtà povera del mondo, quindi, come sarà in Spinoza, l’accettazione attiva di una necessità. Una necessità che è senza dubbio “pazzia”, ma che, nella scelta della povertà assoluta del corpo malato come proprio referente mondano, diviene un conatus per comprendere il senso stesso del mondo là dove esso appare nel suo volto esteticamente più autentico. È questa consapevolezza che Francesco recupera quando, nei momenti di crisi spirituale, perde la sua letizia: sceso dalla Verna, dove nel 1224 ricevette le stimmate, Francesco ringrazia Dio per avergli concesso un regno fatto di «infermità e tribolazione». Ed è in questo stato d’animo, come nota ancora Merlo, che compone quello straordinario inno alla bellezza che è il Cantico di frate Sole. La parola “bello”, nella poesia di un uomo morente, toccato nel corpo quasi come i lebbrosi dai quali prese avvio la sua conversione, torna qui per ben tre volte, per il sole, la luna e le stelle e per il fuoco: una tensione erotica, un conatus d’amore, che si conclude – attraverso un’opera d’arte, ma guardando il reale in tutti i suoi aspetti e strati – ancora una volta con una 19. In G. Merlo, Nel nome di san Francesco. Storia dei Frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del xvi secolo, Edizioni Francescane, Padova 2003, p. 27. 20. Ibid.

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“beatitudine”. Perché beati sono quelli che lodano tale bellezza, ricordando le terzine dell’undicesimo canto del Paradiso, che Dante dedica alle nozze tra Francesco e Povertà. Nozze, dunque, ancora una volta, ma con ben diversa contestualizzazione simbolica – non perché sia diverso il senso del simbolo, ma perché il simbolo ha qui conosciuto il diavolo, e con esso sa di doversi sempre confrontare: «la lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi». Qui noi comprendiamo che la bellezza non è soltanto il piacere delle forme, bensì, in quanto “grazia”, è offerta, disponibilità nei confronti del mondo, travaglio e potenziale tragicità del finito che la attraversano con i loro dissidi, con scale di valori tra loro in dialogo. Un padre della Chiesa che ben conosceva il significato profondo e ambiguo dell’immagine “bella”, Gregorio di Nissa, che riconosce alla pittura la capacità di parlare anche quando tace, scrive un’Omelia sulle Beatitudini che può forse servire per avviarsi verso la conclusione. La povertà non è beata in sé, dunque, ma è bellezza, tensione, simbolo quando incontra i «poveri in spirito» (Mt. 5, 1): loro, appunto, sono i beati, che “sono” il regno dei cieli. Questa affermazione evangelica, su cui certo un laico non può cimentarsi, permette tuttavia di comprendere la complessità e l’ambiguità stessa della povertà, che è in sé carenza e abbondanza, possesso, addirittura, del Regno dei Cieli. Da un lato, senza dubbio, vi è il consueto sospetto nei confronti della ricchezza materiale, cui invece va contrapposta la ricchezza spirituale, che è il segno concreto della bellezza della beatitudine. Ricchezza che, come è proprio della natura del simbolo, si conquista essendo “poveri”. Beatitudine, scrive Gregorio di Nissa, «è il possesso di tutte le cose che sono pensate come bene, a cui non manchi nulla di ciò che un desiderio buono può volere». Beatitudine, continua Gregorio, «è quella vita incorrotta, è il bene ineffabile e incomprensibile, è inenarrabile bellezza»: «colui che è povero volontariamente di tutto ciò che viene pensato come male e non tiene nessun tesoro diabolico custodito nei suoi magazzini, ma vivendo di spirito si guadagna, grazie ad esso, il tesoro della povertà dei vizi, questo dovrebbe trovarsi in quella povertà beata indicata dal Logos, il cui frutto è il regno dei cieli». Essere poveri di spirito significa non custodire alcun “tesoro diabolico”, cioè non accettare la scissione come costitutiva della nostra natura, bensì, come frate Francesco, accettare nel corpo, nel corpo dei lebbrosi e nel corpo di fratello Sole, quelle differenze che costituiscono un’unità che sempre di nuovo deve essere posta e messa in crisi, senza la superbia di una visione “unica”, che non più ricorda il mito costitutivo della simbolicità di eros e della bellezza. Gregorio di Nissa ricorda, come Kundera millecinquecento anni dopo, che la leggerezza dell’essere è insostenibile come la sua pesantezza, ed essere poveri in spirito significa comprendere questa natura, duplice ma non scissa, della beatitudine.



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QUESTO VOLUME, SPROVVISTO DI TALLONCINO A FRONTE (O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO O ALTRIMENTI CONTRASSEGNATO), È DA CONSIDERARSI COPIA DI SAGGIO - CAMPIONE GRATUITO, FUORI COMMERCIO (VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI: ART. 21, L.D.A.). ESCLUSO DA I.V.A. (DPR 26-10-1972, N.633, ART. 2, 3° COMMA, LETT. D.). ESENTE DA DOCUMENTO DI TRASPORTO.

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La natura del bello

Romanae Disputationes 2017-18 Che cos’è la bellezza? Esiste qualcosa che rende belle le cose belle? Se esiste, che cos’è? Fin dove ci può condurre una cosa bella? Di che cosa facciamo esperienza quando contempliamo qualcosa di bello? L’esperienza del bello rompe la monotonia del tempo e scuote l’uomo tanto nella sua dimensione corporea e sensibile, quanto in quella razionale e spirituale. Riflettere sulla bellezza, a partire dal suo apparire nel vissuto di ciascuno, costringe a cercare il nesso tra il corpo e la mente, tra i nostri sensi e la dimensione cosciente e razionale che esprime giudizi e sentimenti. Proprio per riflettere su questi temi, il Concorso “Romanae Disputationes 2018” si è posto a tema: “La natura del bello”. Il volume cerca di offrire materiali
che consentano, a diversi livelli di approfondimento e da molteplici angolature, di rimeditare
il tema del bello e di documentare i lavori del Concorso.
Per quanto riguarda i contenuti, il libro si compone di tre parti. La prima raccoglie
gli interventi di importanti studiosi: Elio Franzini, Sergio Givone e Giuseppe Frangi.
La seconda parte raccoglie i materiali vincitori
del Concorso alla due giorni romana, svoltasi il 16-17 marzo 2018, presso la Pontificia Università San Tommaso e riporta l’elenco dei premiati. Marco Ferrari insegna filosofia e storia nei licei. È co-curatore di TEDxYouth@Bologna e direttore della Bottega di Filosofia di Diesse. È ideatore e direttore del Concorso nazionale di filosofia per le superiori Romanae Disputationes e dei webinar di storia e arte contemporanea dell’associazione ToKalOn di cui è vice presidente. Ha pubblicato alcuni contributi sul pensiero di Maurice Merleau-Ponty (2015 e 2016) e ha curato Libertà va cercando. Percorsi di filosofia medievale (Milano-Udine 2017) e, con Gian Paolo Terravecchia, Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni (Castel Bolognese [RA] 2014) e i “Quaderni della ricerca” di Loescher 2014, 2015, 2016 e 2017 relativi ai percorsi formativi di Romanae Disputationes. Gian Paolo Terravecchia insegna filosofia e storia nei licei. Ha conseguito il PhD in Filosofia presso l’Internationale Akademie für Philosophie e il dottorato di ricerca in filosofia teoretica e pratica presso l’Università di Padova. Si occupa di filosofia sociale (Il legame sociale. Una teoria realista, Napoli 2012) ed è cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova. Con Luciano Floridi ha curato Le parole della filosofia contemporanea (Roma 2009). È coautore di manuali di filosofia e di Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica (Torino 2016). È presidente del comitato didattico del Concorso Romanae Disputationes.

€ 11,00

ISBN 978-88-201-3841-7

3841 LA NATURA DEL BELLO

9 788820 1 384 1 7

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