Una poesia per insegnare #11

Tempo di lettura stimato: 5 minuti
Riprende, dopo un anno di silenzio, la serie delle “Poesie per insegnare”. Perché la poesia, per quanto ignorata dalla stragrande maggioranza dei lettori, è in questo momento la forma d’arte letteraria esercitata in modo più competente (e con risultati qualitativamente eccellenti) dagli scrittori e dalle scrittrici della penisola italiana, o in lingua italiana. Le poesie scelte sono commentate in modo personale, allo scopo di fornire idee e spunti utili alla riflessione sull’insegnamento e sull’apprendimento.
L’immagine di Luca Mengoni sulla copertina di Argéman.

Non appena ho letto la poesia Per una insegnante cattiva, raccolta da Fabio Pusterla nel suo libro Argéman (Marcos y Marcos, Milano 2014), ho sentito il bisogno di leggerla con le mie alunne e i miei alunni di quinta. Alla prima lettura ad alta voce non è successo niente. Solo silenzio e poi qualche perplessità. Alla seconda qualcosa si è mosso, e ho fatto alcune domande per aiutarli a entrare nella storia, a immaginare la scena. Dove siamo? Quali sono i personaggi sulla scena? Sono in piedi o seduti? Cosa fanno?

Le buone, le scientifiche
ragioni? Come sempre
le avrai, tu rigorosa
sempreverde serpeverde che assicuri
il bene dei ragazzi e dei futuri
calcolatori integerrimi, pronti a farsi
complici di una cosa ottimamente
prevista progettata senza un’ombra
di vaga, dispersiva umanità.

Le buone, le scientifiche ragioni
oggettivate sempre e come sempre
naturalmente incolpevoli. Alla sgraziata
fanciulla che singhiozza e perde muco
e trema contro un muro e picchia i pugni,
a quegli sguardi muti
chini come su un gorgo, che ti dicono
quanto male tu faccia e rappresenti,
agli umili e ai perdenti
auguri sorridendo buona estate.

Troppo onesti,
troppo davvero buoni,
questi ragazzi che hanno disimparato
a contrapporsi.

Siamo in Svizzera, nel Canton Ticino, forse nel liceo in cui il poeta Pusterla insegna lingua e letteratura italiana. Il poeta-narratore si rivolge a una professoressa, probabilmente di matematica, responsabile della formazione dei futuri “calcolatori integerrimi”, e il cui profilo è tracciato con un solo efficace neologismo: “serpeverde”.
I Serpeverde – i potteriani lo sanno – sono i membri di una delle quattro casate in cui sono organizzati gli alunni e i professori della scuola di magia di Hogwarths. Il professor Piton è un Serpeverde. Un grand’uomo. Uno dei personaggi più riusciti della letteratura contemporanea. E un Serpeverde è il professor Lumacorno (Slughorn nell’originale), un tipo strano, reclutato da Silente come docente di pozioni durante il sesto anno di scuola.
Come tutti i membri della sua casa, è ambizioso, furbo e intraprendente, avido di potere e di conoscenza. E si distingue per una particolarità: adora manovrare dietro le quinte per scegliere e formare i giovani che sono destinati ad avere potere. I suoi allievi prediletti – tra i quali un tempo primeggiava Tom Riddle, divenuto Lord Voldemort – entrano a far parte del Lumaclub, un gruppo esclusivo di maghi e streghe particolarmente dotati o appartenenti a famiglie prestigiose.

Come ogni bullo ha bisogno della sua vittima, così la professoressa “serpeverde” ha bisogno della complicità dei suoi alunni, i quali stanno al suo gioco.

I poveracci privi di talento, con lui, non hanno speranza di imparare qualcosa di utile.
Come ogni bullo ha bisogno della sua vittima, così la professoressa “serpeverde” ha bisogno della complicità dei suoi alunni, i quali stanno al suo gioco. Chi accettando la parte della bestia al macello, chi scegliendo il ruolo dello spettatore silenzioso. Sono i compagni con gli occhi spenti, che con i loro “sguardi muti” riescono a comunicare il massimo dell’indifferenza, della mancanza totale di volontà. E la carnefice che – perfidamente o, forse, con cinica leggerezza – augura una “buona estate”, ha dalla sua parte le “scientifiche ragioni oggettivate” e “incolpevoli”, che a me fanno pensare alla falsa oggettività dei test che sempre più spesso gli insegnanti somministrano agli alunni per assegnare i voti.
La scena è avvincente e riesce a rendere davvero odiosa la figura dell’insegnante che assurge a simbolo stesso del male (e non solo della scuola).Forse la ragazza ha sbagliato un test, non ha raggiunto il punteggio necessario a superare l’anno, e ora piange disperata, umiliata dalla professoressa e abbandonata dai suoi compagni, i quali, come lei, hanno disimparato a contrapporsi.
La scena è avvincente e riesce a rendere davvero odiosa la figura dell’insegnante che assurge a simbolo stesso del male (e non solo della scuola). I danni del suo operato sono evidenti – secondo il poeta-narratore – in quegli sguardi muti e “chini come su un gorgo”. Il contrario di qualsiasi forma di empowerment, parola intraducibile che significa, in inglese, sentimento di potere o senso di legittimazione. L’empowerment dovrebbe essere, in un sistema democratico, la finalità ultima dell’educazione. Rendere le persone e le comunità capaci di scegliere i propri obiettivi e di individuare le risorse per raggiungerli. Autonomia e spirito critico; capacità di discernimento, e, anche, di contrapporsi. Mettersi contro.
Pare che quest’idea sia più accettabile nei luoghi in cui abitano le persone che si ritengono in qualche modo già perdute: nelle carceri, nelle comunità terapeutiche, nei centri per minori a rischio, o nelle comunità rurali, povere, svantaggiate. Laddove in qualche modo si è già fallito, poiché ormai è troppo tardi per raggiungere gli standard previsti dalla maggioranza.

Nella terra delle eccezioni, le scientifiche ragioni perdono il loro senso. E la scuola può fare il suo vero mestiere: trasferire potere alle persone, costruire con loro una cultura condivisa.

È qui che si dà per scontato che l’educazione sia centrata sulla persona, con il fine di recuperare il suo contributo critico alla società. Ed è qui che si possono sperimentare e applicare metodi didattici diversi in tranquillità, senza correre il rischio che arrivi un genitore a chiedere di “rispettare” un programma che non esiste per la legge ma che ancora agisce nei ricordi dei più anziani. Nella terra delle eccezioni, le scientifiche ragioni perdono il loro senso. E la scuola può fare il suo vero mestiere: trasferire potere alle persone, costruire con loro una cultura condivisa.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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