Sciascia, «appassionato incompetente» di immagini

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Nel denso saggio di Maria Rizzarelli si esplorano in modo sistematico e ficcante i rapporti intrattenuti da Sciascia con le varie manifestazioni del mondo visuale, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al cinema.

Con il volume Sorpreso a pensare per immagini. Sciascia e le arti visive (ETS, Pisa 2013), Maria Rizzarelli offre un articolato panorama degli intensi rapporti che Leonardo Sciascia intrattenne con ogni tipo di linguaggio iconico: rapporti caratterizzati, come scrive l’autrice, da una «visione ‘analogica’ dei fatti letterari e di quelli figurativi». Basti ricordare che lo scrittore di Racalmuto amava definirsi, in fatto d’arte, un «appassionato incompetente», formula che dietro la facile petizione di modestia ci pare celare una (probabile) citazione letteraria, con riferimento a uno straordinario libro oggi purtroppo dimenticato, Appassionata incompetenza: note su cose d’arte di Massimo Bontempelli. L’implicita eco bontempelliana mette dunque in luce un aspetto decisivo del rapporto di Sciascia con i linguaggi della visualità: il gusto, più che la necessità, di filtrare la propria esperienza dell’immagine attraverso riferimenti intertestuali alla letteratura, continuamente incrociando l’alfabeto dei segni grafici con i segni dell’alfabeto tipografico. Non a caso i nomi degli scrittori più amati da Sciascia, da Diderot a Stendhal, senza dimenticare l’amatissimo pittore/scrittore Alberto Savinio, tornano frequentemente in queste pagine.

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Il volume di Rizzarelli prende le mosse dall’ambito pittorico, evidenziando la complessità della scrittura ecfrastica sciasciana e dimostrando come, nelle opere narrative e nei romanzi “polizieschi” in particolare, le immagini non fungano da citazioni inerti bensì da tessere incastonate nel complessivo mosaico del racconto. Le sollecitazioni figurative agiscono pertanto a più livelli, attraverso giochi di somiglianza e rispecchiamento ma anche come vere e proprie chiavi di lettura del testo, portando a giorno le posizione politiche, sociali e addirittura personali dell’autore, quasi che la realtà non facesse che imitare, anche da enormi distanze geografiche e temporali, l’arte, o che l’arte fungesse da premonizione iconica del mondo a venire. Non è peraltro infrequente, come nei casi di Todo Modo – con riferimento alle Tentazioni di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, tela del 1630 – o de Il cavaliere e la morte – chiara allusione alla celebre incisione Il cavaliere, la morte e il diavolo di Albrecht Dürer – che le opere figurative agiscano da veri e propri motori della scrittura. Circa lo Sciascia critico d’arte, che ebbe in Longhi, come molti dei suoi coetanei, a partire da Pasolini, un punto di riferimento e un maestro indiscusso, oltre alla stima e all’amicizia per il pittore siciliano Bruno Caruso, si evidenziano da un lato la sua adesione a un’arte di tipo realistico ed engagé (molto interessanti le considerazioni di Rizzarelli sull’interpretazione “verghiana” che Sciascia dava dell’opera di Guttuso, vedendo in lui un cantore delle «umane passioni»), dall’altro la profonda fascinazione per artisti di gusto onirico e surreale (e qui spiccano, oltre al nome di Savinio, le personalità di Fabrizio Clerici e Alberto Martini).

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Di particolare interesse risulta la seconda parte del volume, dedicata all’immagine fotografica, tema che occupa un posto di rilievo anche nelle pagine dei romanzi. Rizzarelli ripercorre alcune significative tappe della lunga fedeltà che lega Sciascia all’«arte senza musa», come amava definirla: qui incontriamo un testo “mitico” del Novecento italiano come il fotolibro Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini (1955), e importanti riflessioni su alcune figure di respiro internazionale, dal Robert Capa fotografo di guerra a Henri Cartier-Bresson, maestro del ritratto su pellicola la cui lezione esercita un’influenza decisiva su molti fotografi siciliani, a partire da Ferdinando Scianna, artefice di racconti per immagini tra i più suggestivi del secolo scorso. Sciascia legge il testo fotografico attribuendogli un valore perlomeno duplice: sul piano storico e socio-antropologico, ne apprezza l’importanza come documento, testimonianza di ciò che lo scorrere del tempo ha cancellato o sta cancellando (Rizzarelli si sofferma giustamente sull’esempio della fascinazione dello scrittore per le “celle perdute” delle carceri inquisitoriali di Palermo); su un piano ontologico, lo considera un oggetto segnato da una forte dimensione mortuaria, dato l’oscuro rapporto che intercorre tra persistenza dell’immagine e condizione mortale dell’individuo ritratto. Nei primissimi anni Ottanta, Sciascia era stato profondamente colpito dalla lettura de La chambre claire di Roland Barthes, e l’influenza decisiva di quel testo è facilmente riscontrabile nel saggio Il ritratto fotografico come entelechia (1987), summa del suo pensiero sull’argomento, incentrato sull’idea che il ritratto sia oracolo, premonizione di un destino, quasi che l’immagine avesse iscritto in se stessa il fatale divenire del soggetto. Esemplare risulta in tal senso la presenza, davvero ossessiva e fantasmatica nell’ultimo decennio di vita dell’autore, di due immagini feticcio legate alle due maggiori vittime sacrificali dei feroci anni Settanta: quella del corpo nudo di Pasolini, ritratto da Dino Pedriali pochi giorni prima della tragica morte, e lo scatto di Aldo Moro, «preda della più antica stanchezza, della più profonda noia», nella cella delle Brigate Rosse. Un terzo e ancor più terribile ritratto “in vista della morte” è quello del fantasma per eccellenza del primo Novecento italiano, Giacomo Matteotti, revenant che col suo «volto sereno e severo» sembra avere iscritto nella sua stessa fisionomia il destino tragico non solo della propria persona ma di una parte consistente del popolo italiano. Il ritratto di Matteotti, scrive Sciascia in Porte aperte, era come inchiodato «nella memoria degli italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che avevano sentimento».

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Completa il volume una sezione dedicata al rapporto con le immagini in movimento, in cui ancora una volta si evidenzia l’attenzione di Sciascia per il valore documentario delle testimonianze visive (Rizzarelli elenca ed analizza le molteplici collaborazioni dell’autore con i documentaristi italiani degli anni Sessanta), e al contempo la sua profonda fascinazione per le capacità mitopoietiche del cinema, sola arte ancora in grado di popolare l’immaginario di figure e volti destinati ad acquistare, col tempo, forti implicazioni memoriali e sentimentali. Arricchisce il volume un prezioso apparato iconografico.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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