Conciossiacosaché

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Partiamo dal titolo. “Conciossiacosaché” significa “poiché”. L’occasione di ripensarci me l’ha data una lettera che stavo scrivendo e che cominciava con questa congiunzione, appunto. Alla terza riga mi sono fermato perplesso. Si può cominciare un testo con “poiché”?

alfieri

Ricordavo di aver letto di qualcuno che aveva buttato dalla finestra un libro che cominciava così (nella forma arcaica: conciossiacosaché). La curiosità ha avuto la meglio sul dovere, e, accantonata la lettera, ho fatto la cosa che ormai faccio abitualmente di fronte alle lacune della mia personale enciclopedia: ho digitato la parola in Google. Prima di dare l’invio, però, il mio cervello si è ribellato, facendomi balenare fulgido il ricordo: Alfieri, nella sua Vita!
Aveva cominciato a leggere il Galateo, ma si era arrestato di fronte a quell’incipit.
Vero è che il problema lì era linguistico, e non di convenienza stilistica: era la parola astrusa che l’aveva irritato.
Ho frugato nella libreria alla ricerca di quel libro, che ricordo di aver molto amato al tempo del liceo.
L’ho aperto.
Pagine ingiallite, orecchie larghe e sottolineature a iosa.
Alcune evidentemente di studio. Altre no, personali. Ma di una persona che non ricordavo di essere stata.
A pagina 60 della mia edizione Garzanti, per esempio, trovo che, durante il suo primo viaggio a Milano, Alfieri si lamenta di non aver visitato tutto ciò che avrebbe potuto, o di averla visitata “male o in fretta, da quell’ignorantissimo e svogliato ch’io era di ogni utile e dilettevole arte”.
Sottolineata tutta la frase e, a margine, con la pessima grafia che mi contraddistingue, un appunto: “Ahimé”.
Ora, che io mi sentissi così ignorante e svogliato già a diciassette anni mi fa effetto. Me ne ero dimenticato, e credevo che la consapevolezza di essere un pessimo viaggiatore mi fosse arrivata con la maturità.
Dopo la prima riflessione, il senso di colpa: ma se ero già consapevole di essere così allora, come mai non ho fatto nulla per migliorarmi?
E, ultimo ma non ultimo, questo sgomento: ma io scrivevo “ahimé” a 17 anni?

In altro punto, a pagina 239, trovo una freccia con un grosso punto esclamativo.
È il passo in cui, a Pisa, il tragediografo soddisfa una certa “vanaglorietta”: si fa notare per i suoi splendidi cavalli. Ma poi appunta: “in mezzo a quel mio fallace e pueril godimento, mi convinsi con sommo dolore ad un tempo stesso, che nella fetida e morta Italia ella era assai più facil cosa il farsi additare per via di cavalli, che non per via di tragedie”.
Freccia e punto esclamativo è il mio (ma non solo) modo di enfatizzare qualcosa su cui valga la pena di meditare a lungo.
Eterogenesi dei fini: oggi quella simbologia mi riporta a galla ricordi di impegno giovanile, e di astratti furori postadolescenziali, nascosti da tempo sotto una coltre di cinismo arreso. Allora quel punto esclamativo aveva probabilmente il vigore di un pugno sul tavolo. Oggi, l’equivalente iconico del mio sguardo sul mondo sarebbe probabilmente la strizzata d’occhio di un emoticon sorridente.
Più avanti ritrovo traccia di questo singolare corpo a corpo con il testo. Un’altra nota a margine, a proposito del passo in cui Alfieri racconta il suo personale metodo per studiare gli autori della letteratura greca: prendeva i testi più “scorretti” e “mal punteggiati” che gli capitasse di trovare. Li traduceva a vista in latino. Ne faceva un riassunto in greco. “Sudori e pazze ostinazioni”: così definisce le sue fatiche, peggiorate a quel punto da debolezza di memoria che lo porta a prendere “alla prima lettura dei grossissimi granchi”.
A me dovette sembrare un metodo veramente poco economico, se con scrittura calcata e arroganza ignorante annotavo “allora sei scemo!”
Giudizio irrispettoso, che forse traeva parte della propria virulenza dalle ore di studio inglorioso che il mio io diciassettenne consumava su 15 righe di versione di greco (che non era mai quella di cui si offrivano frasi già tradotte sul dizionario), nel tentativo di trarne un qualunque costrutto. Dovette davvero sembrarmi stravagante quel metodo, che consisteva nell’andarsi a complicare “inutilmente” la vita.
Giudizio irrispettoso, quindi, ma ironicamente beffardo sulle sorti del non più giovane glossatore: Alfieri aveva allora 50 anni. Io ne ho 48. Entrambi soffriamo di debolezza di memoria. Lui studiava pazzamente, con metodi eroici. Io tengo Google aperto sul desktop.
Lui, se potesse, oggi mi manderebbe un emoticon con ghigno ammiccante.

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Sandro Invidia

Direttore editoriale Loescher.

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