Le tre età del lettore

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A sedici anni si sospira e ci s’infervora su Verlaine e Majakovskij, a trenta si evade nella finzione romanziera, a sessanta si rilegge la storia (propria, e altrui) tentando di impossessarsene attraverso le biografie. Su queste ultime, e sui bisogni che portano alla loro lettura, ragiona Isabel Burdiel in un bell’articolo tradotto e pubblicato da Davide Orecchio su Nazione Indiana. Di seguito un estratto del pezzo, intitolato “Il perché delle biografie”, e il link per leggerne la versione integrale.

plutarco

Diceva Josep Pla che, se a quarant’anni continui a leggere romanzi, sei un idiota. Non è necessario essere d’accordo per rifletterci un po’ sopra.

Per molti lettori – forse anche per Pla –  la poesia è il genere dell’adolescenza, il romanzo quello della giovinezza e la biografia è il genere della maturità. Un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge. Si tratta di quegli anni alle spalle nei quali non c’è scampo al tempo, quando il passato, come diceva il poeta Ángel González, è così incerto e scoraggiante quanto il futuro per gli adolescenti.

Sopraggiunti e lasciati alle spalle i quaranta, è il passato che si converte in un orizzonte aperto e incerto da ordinare, al quale occorre dare una direzione e uno scopo; un significato che ci riscatti dall’essere ciò che siamo,  inavvertitamente, arrivati ad essere. È  stato Nietzsche a definire “redenzione” l’operazione mediante la quale, a un certo punto della maturità, trasformiamo ogni singolo e incerto “è stato” in un “avrei voluto che fosse così”.

Le lettura vorace e la scrittura valorosa di biografie si alimentano di questo desiderio di riscatto, di ordine e di senso. Di questo anelito necessario e redentore che, tuttavia, sappiamo essere ingannevole e fuorviante.

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