Natalia e la “vera giustizia”

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Sandra Petrignani firma la bella biografia di Natalia Ginzburg, “La corsara” (Neri Pozza 2018), oggi tra i dodici finalisti allo Strega. Com’è nello stile dell’autrice, la biografia è un ritratto che restituisce appassionatamente la scrittrice e la donna e insieme ci trascina negli anni della vita di Natalia, che sono anche anni nostri (a prescindere dall’età), perché lì qualcosa di fondamentale si costruisce e forse anche si sfalda. Di questo costruirsi e di questo sfaldarsi, che forse nell’oggi lascia impronte che non sappiamo nemmeno leggere, Natalia è testimone e Sandra Petrignani la tessitrice che riannoda le trame e fa in modo che non si perda ciò che ancora serve.
Natalia Ginzburg in uno scatto di Leonardo Cendamo.

Fino a qualche decennio fa, Ginzburg si leggeva molto. Non tutto certo, ma, conferma un’amica libraia, certamente Lessico famigliare e Caro Michele erano dei long sellers, al pari di altri intramontabili come Una questione privata di Fenoglio e La casa in collina di Pavese. Di questi romanzi genitori e insegnanti suggerivano la lettura e sin dalla prima adolescenza, perché su quegli scritti si era in un certo senso forgiata la loro coscienza e, da bravi maestri, affidavano la nostra formazione anche ai loro maestri. Lessico famigliare, in particolare, è un libro, ricorda Petrignani, che diverse generazioni di madri hanno regalato alle figlie.

Domando all’amica libraia in provincia quanto sopravvivano oggi tra i ragazzi questi romanzi lungamente fortunati e scopro che qualche insegnante insiste sulla Morante dell’Isola di Arturo (troppo corposa La storia), mentre alcuni altri romanzi possono entrare in un percorso sulla letteratura partigiana e dunque la celebrazione li salva, ma è sempre più raro che si cerchino Ginzburg o Lalla Romano. Della seconda, forse, persino il nome si è perso. Anche Pavese quasi non si legge.

Le ragioni sono molte e ottime, come sappiamo, eppure sembra un paradosso (sia detto da chi ha coltivato lungamente passioni medievali) che gli stessi studenti che si diplomano quasi senza Pavese e senza Ginzburg, si siano però lungamente applicati sui poeti del Duecento e persino (talvolta) abbiano dedicato alla fin amor occitanica più tempo dei loro colleghi d’Oltralpe. Dato che non scopriranno Pavese e Ginzburg all’università, perché in numero marginale sceglieranno studi letterari, c’è da sperare in qualche buon libraio prodigo di consigli. Se la misura statistica della mia amica ha un senso anche fuori dalla piccola cittadina in cui opera, sarà facile comprendere perché La corsara è di questi tempi una lettura preziosa.

Gli anni di Natalia (i nostri anni)

Sandra Petrignani ha innanzitutto raccolto e messo insieme una poderosa quantità di tracce che la penna e la voce di Natalia hanno lasciato, le ha fatte risuonare alla luce delle testimonianze degli amici e dei massimi conoscitori, come Cesare Garboli, ha visitato le case abitate dalla scrittrice, fatto parlare i luoghi. Con ciò ha innanzitutto offerto una lezione di metodo, perché non bastano i romanzi e racconti per certi scrittori che hanno la vocazione dei maestri, anche al di là della propria indole: riservatissima e schiva certo era quella di Natalia, che già bambina si scopre una timidezza proterva, l’orgoglio di essere una creatura speciale e al contempo la vergogna di non essere come tutti (La corsara, p. 49). Figure come quella di Ginzburg, anche quando innovano le forme (e lei fu certamente innovatrice della forma romanzo), non sono mai riducibili a sola forma, anzi: la scrittura è un modo per tradurre in parole la loro partecipazione alle cose del mondo. E allora anche del loro mondo occorre parlare.

Petrignani ci riporta alla storia personale di Natalia Levi Ginzburg strettamente intrecciata alla nostra storia: l’infanzia della famiglia Levi, ebrea-piemontese e borghese, negli anni fra le due guerre, la sorella Paola sposata con Adriano Olivetti e poi con Carlo Levi, il fratello complice della fuga di Filippo Turati, Natalia stessa introdotta giovanissima nel gruppo che avrebbe dato origine alla casa editrice Einaudi. 

Leone Ginzburg, che dell’Einaudi fu certamente uno dei padri ispiratori, sul piano sociale ed etico prima che letterario, riconobbe il genio di Natalia e la sposò; fu un connubio nel quale, per entrambi, non è facile distinguere amore/vita e letteratura, ma trascorsero insieme pochi anni, perché la mattina del 5 febbraio 1944 Leone, che aveva rifiutato di collaborare con i Tedeschi, fu torturato e ucciso nel carcere di Regina Coeli.

Dunque eccovi il primo argomento per tornare alla vita e alle opere di Natalia Ginzburg: la storia di Natalia è una parte importante della nostra storia, proprio quella degli anni in cui si struttura l’Italia repubblicana e democratica. Dopo la morte del marito, nel momento più tragico per una donna di quel tempo già madre di tre bambini, Natalia non tradì la vocazione alla scrittura e ottenne da Giulio Einaudi uno stipendio e un primo incarico che la portò poi ad essere una delle donne più influenti della letteratura e della cultura italiana. La letteratura e la scrittura erano tutta la sua vita.

La lezione di una scrittrice corsara

Per comprendere quanto ricca e sfaccettata fosse questa vocazione alla scrittura (quanto profondamente “umana”), vale la pena considerare non soltanto le opere narrative, ma l’attività giornalistica e politica, le varie forme della militanza civile della scrittrice. 

Nel ritratto di Sandra Petrignani – sin dal titolo evocativo di un altro maestro e corsaro, Pier Paolo Pasolini – spicca la Ginzburg polemista e la parlamentare che nelle battaglie civili si manifestò non tanto intellettuale prestata alla politica, ma libera pensatrice impegnata ad alimentare e custodire il senso di una comunità e, soprattutto, i diritti dei più fragili.

Mi pare che questo sguardo nuovo suggerisca più di una ripresa nella nostra esperienza didattica. Nella prassi scolastica la competenza di scrittura argomentativa è proprio uno degli snodi nei quali la diatriba competenze/conoscenze manifesta tutta la sua urgenza. Confesso l’impressione che si sia talvolta affermata una via sofistica nella didattica della scrittura: vi trovano legittimamente spazio articolate analisi tecnico-strutturali e specificità lessicali (connettivi, inferenze, fallacie argomentative …), ma talvolta si perde il senso dell’impresa.

Sono questi approcci molto diversi da quelli che hanno formato noi adulti e li giustifichiamo alla luce del fatto che il mondo è cambiato. Ma forse l’apprendimento della scrittura (e del pensiero che ne è la base) non è diverso dall’andare a bottega per il pittore del Trecento, che nel maestro scopriva la nobiltà e la naturale corrispondenza di una sfumatura, non certo (non subito) la composizione chimica del pigmento o le leggi dell’ottica. Talvolta (sia detto con prudenza e rispetto per chi si applica a materie tanto complesse) si ha il timore che la tecnica formale prevalga sulla sostanza (anche pedagogica) del discorso. Banalizzando molto, potrei dire che rischiamo di allenare i ragazzi a guardare con somma attenzione il dito trascurando la luna.

Eppure, proprio i migliori maestri di retorica antica, prima di addentrarsi nella disamina delle partizioni retoriche e dei colores, sancivano un precetto fondamentale: rem tene, verba sequentur. Prima le cose, dunque. Ed eccoci il soccorso di Natalia corsara. 

Sandra Petrignani dedica ampio spazio all’ultimo pamphlet della scrittrice, Serena Cruz o la vera giustizia. Alla base dello scritto è una vicenda forse ancora viva nella memoria di molti: una bambina di origine filippina nel 1989 fu separata dai genitori italiani per un provvedimento del Tribunale dei Minori, che decretò l’infondatezza della paternità naturale e dunque l’irregolarità dell’affidamento alla coppia. 

Scrivo questo breve libro perché sia ricordata la storia di Serena Cruz, a tutti quelli che ieri la leggevano sui giornali, e perché ne sia data notizia a quelli che non ne sanno nulla.
Poi lo scrivo perché siano ricordati altri fatti, che riguardano le adozioni e i bambini, altri fatti che sul momento hanno suscitato scalpore e che sono stati rapidamente dimenticati. Abbiamo tutti la memoria corta.
E infine lo scrivo per testimoniare solidarietà alle persone a cui sono stati strappati i bambini, che esse avevano fino a quel giorno amato e accudito. Per testimoniare solidarietà alle persone, genitori e bambini, che hanno visto, come Serena Cruz e i suoi primi genitori adottivi, distrutta in un attimo la tranquillità famigliare, traditi e calpestati gli affetti, e che acerbamente hanno sofferto devastazioni, separazioni e perdite. 

(Ginzburg, Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, Torino 1990, nota introduttiva dell’autrice)

Nel 1989 la scrittrice si assunse la responsabilità di una novella Antigone, convinta che nella storia di una bambina si giocasse qualcosa che riguardava tutti. 

La sua lingua è al solito precisa e affilata, ma quel che colpisce non è l’esercizio di stile. Chi scrive sa cos’è una bambina e cos’è una madre, sa di cosa sono fatte le relazioni fondamentali e infine sa bene che cos’è il dolore. Si assume il compito di fare in modo che certe parole abbiano cittadinanza tra le cose che esistono e, soprattutto, tra le cose che contano. 

Non dovremmo mai stancarci di dire ai più giovani che le parole sono una preziosissima eredità, tanto più se, restituendo una forma di giustizia anche solo poetica, servono a riscattare sul piano della scrittura quelle sofferenze che sono il segno della violenza della vita e, in questo caso, della crudeltà delle leggi, anche di quelle nate per tutelare i più deboli. 

Questo libro è un grido. È la richiesta alla società di fermarsi, di guardarsi esistere nell’assurda gestione che fa di sé e della vita attraverso la Legge, quando la Legge è qualcosa di astratto e distante dall’anima delle cose e delle persone. È un nuovo Urlo di Munch. (La corsara, p. 420)

Nella chiusa del libello, Ginzburg scrive: 

A me sembra che giustizia e legge dovrebbero essere una cosa sola. So bene quanto spesso non sia così, però è così che dovrebbe essere. Come si fa a pensarle divise? Le leggi non sono fatte per difendere la giustizia? Per difendere i diritti dei più deboli contro i più forti? … E quando accade di doverle pensare divise, la giustizia e la legge, quando una legge appare manchevole o difettosa, non dovrebbero allora i magistrati fare i salti mortali per applicarla il più possibile giustamente? In particolare quando è in gioco il diritto e il destino d’un bambino? E dimettersi se non ci riescono?

Esiste forse qualcosa che sia più importante della giustizia, nel governo dei paesi, nei rapporti con le vicende e con le istanze umane? Ma più importante della giustizia non esiste niente. (Ginzburg, Serena Cruz cit., pp. 95-96)

Ginzburg è morta nel 1991, e sarebbe interessante sapere cosa è stato della bambina Serena Cruz e dei suoi genitori, chiederci cosa è stato del nostro senso per la giustizia. Ma il valore di un pensiero non è tutto nei suoi esiti: fossero anche state soltanto comprensione e pietà l’unico effetto di queste parole, mi auguro che possiamo raccogliere lo stimolo, raccontare a chi impara che la lingua si affila anche con le ragioni del cuore. 

Il dolore, la pietà: essere adulti

Nella sua esplorazione delle scritture di Natalia, Sandra Petrignani rintraccia la grande attitudine a cogliere e raccontare la sofferenza che si annida nelle sfumature del quotidiano. Tale comprensione ha a che vedere con la personale “cognizione” del dolore di Natalia: il dolore è per lei tanto importante da segnare il passaggio all’età adulta e a alla responsabilità che questa comporta. Basti lo splendido passo delle Le piccole virtù (Einaudi 1962, pp. 93-95), nel quale si coglie l’assenza di Leone, l’eredità raccolta, il mestiere di vivere e il mestiere di scrivere.

Ma viene il dolore per noi […] È adesso che siamo veramente adulti. […] Siamo adulti perché abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone morte, a cui chiediamo un giudizio sul nostro comportamento attuale, a cui chiediamo perdono delle passate offese. […] Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta tutte le cose della terra e abbiamo rinunciato a possederle […] e ci sembra che potremo sempre ritrovare quel momento segreto, ricercare là le parole per il nostro mestiere, le nostre parole per il prossimo, guardare il prossimo con uno sguardo sempre giusto e libero, non lo sguardo timoroso o sprezzante di chi sempre si chiede, in presenza del prossimo, se sarà suo padrone o suo servo.

Vorrei raccontare di più, della precoce e lucida scoperta di una vocazione alla scrittura, di un carretto che trasportava uno specchio che rifletteva il cielo, dello scritto sul pozzo delle donne e della splendida risposta di Alba de Céspedes, ma per tutte queste cose non basta lo spazio di un articolo. Fortunatamente abbiamo un libro e, per chi non lo avesse ancora fatto, sarà bello leggere, perché La corsara illumina non soltanto la grande narratrice Natalia Ginzburg, ma anche l’intellettuale che ha voluto dar conto delle fondamentali ragioni del cuore e perciò merita di tornare a essere maestra di civiltà e umanità. Buoni argomenti per gli “Amici della Domenica”, cui sono affidate le sorti del Premio Strega.

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, dal 9 febbraio 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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