L’incanto del boom economico nella Milano di Lupo

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A febbraio, su questa rivista, Elena Rausa ha pubblicato una recensione puntuale e ben documentata sul saggio di Giuseppe Lupo, “La letteratura al tempo di Adriano Olivetti”. Nel preambolo suggeriva di perseverare nella buona pratica scolastica di offrire ai giovani suggestioni di letture adatte all’affinamento del loro scrivere e parlare in italiano; e quel testo, che evoca l’utopia troppo breve e visionaria di un imprenditore illuminato, veniva proposto come approccio integrato e multidisciplinare alla storia e alla cultura italiane della seconda metà del XX secolo, generalmente svolte dai programmi a volo d’uccello. Colgo volentieri le indicazioni della collega e amica, perché a settembre lo stesso Giuseppe Lupo, questa volta in veste di romanziere, è uscito con “Gli anni del nostro incanto”, edito da Marsilio (euro 16).

Il romanzo attinge agli approfonditi studi che l’autore, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica di Milano e Brescia, ha svolto e continua a svolgere sul filone della letteratura industriale. Scelgo come esempio il saggio Laterza del 2013 dal titolo La fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, curato da Lupo in collaborazione con Giorgio Bigatti: esso può offrire al docente un’antologia ricca di infiniti spunti sulla produzione narrativa e poetica dedicata al fenomeno industrializzazione nel nostro Paese e potrebbe mostrare agli studenti il mondo del lavoro, in tempi in cui tanto si discute di jobs act e alternanza scuola-lavoro, sotto una veste più attraente e variegata.

Il romanzo di una famiglia operaia
Nel più recente romanzo Lupo ambienta l’intreccio a Milano fra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’avvio degli anni Ottanta, con protagonisti i componenti di una normale famiglia del ceto operaio: il padre Luigi, chiamato alla milanese Louis, montatore meccanico all’Innocenti; la madre Regina, parrucchiera; il figlio Bartolomeo, soprannominato l’Indiano, perché bambino silenzioso e melanconico (non a caso nasce nell’anno della disgrazia di Marcinelle, il 1956) e la figlia Vittoria (anagraficamente vicina all’autore, che è del 1963).

Ed è proprio quest’ultima, nell’incipit del libro, a trovarsi al capezzale della madre ricoverata in ospedale perché ha improvvisamente e inspiegabilmente perso la memoria. Siamo nella fatidica estate del 1982, quella dei Mondiali di calcio in Spagna culminati con il terzo titolo per l’Italia. Stridente la contraddizione tra la condizione delle due donne, chiuse in una relazione dolorosa e assillante, e quella dell’ambiente circostante, sempre più euforico e inebriato dall’epica calcistica che la nostra nazionale seppe suscitare di partita in partita, fino all’apoteosi finale icasticamente rappresentata dall’urlo di Tardelli al secondo gol nella finale con la Germania.

Lo scatto fotografico di un’epoca
La figlia dell’inferma passa giorno e notte accanto a lei in compagnia di una fotografia, scattata negli anni Sessanta e pubblicata vent’anni dopo dalla rivista Gioia, nella quale, a loro insaputa, sono stati immortalati i quattro componenti della famiglia, in sella a una mitica Vespa, mentre si recano al bar Motta di piazza Duomo a festeggiare il decimo anniversario di matrimonio.
C’è il padre che, fiero, tiene davanti il figlio maggiore di sei anni, e c’è la madre, sul sedile di dietro, l’espressione concentrata, che stringe fra le braccia un frugolino di soli due anni – la figlia che, ora donna, l’assiste nel suo calvario. È la fotografia che ha provocato in Regina un improvviso blackout della memoria, risucchiandola in un abisso di afasie; tuttavia è anche l’unico oggetto che suscita ancora in lei una breve, apparente uscita dal torpore e dall’oblio. Ed è per questo che medici e figlia insistono a mostrargliela, sperando di farla reagire positivamente.

Il romanzo è dunque incardinato su questa foto, che poi è quella che, come lo stesso autore ha dichiarato in una intervista, assieme all’editore è stata scelta come copertina del volume, ricavandola dall’archivio storico del «Corriere della Sera», e più volte utilizzata per rappresentare emblematicamente gli anni del boom economico italiano.
Questa foto, intinta nel “calamaio” di Giuseppe Lupo, fa sbocciare un intreccio romanzesco animato da un flusso musicale, frequente nella prosa dello scrittore lucano, che rende liriche più che narrative molte pagine di questo regesto da petite histoire, evocatore prima di un decennio di speranze e di ottimismo, e poi di quello successivo, percorso dal terrorismo e da un’utopia abortita.

Essere all’altezza di questi anni
Attraverso lo sguardo femminile dell’io narrante (Vittoria, la figlia), attento a recuperare ogni dettaglio della quotidianità familiare, viene offerto un vivace campionario materiale di espressioni, oggetti, abitudini (dal cibo ai vestiti, dalle canzoni alle notizie più eclatanti di giornali e TV) riferite al periodo a cavallo fra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.

Questo palpitante brandello di archeologia narrativa su “gli anni alti”, come il padre Louis li definisce, ci restituisce una rappresentazione in gran parte positiva del benessere economico che incominciava a circolare generosamente dagli strati più benestanti della società fino a quello operaio. In quell’Italia si era inclini all’ottimismo, ci si ancorava a principi saldi e ben definiti, si aveva fede in un progetto comune, condiviso, per un miglioramento costante della collettività.

Perché siamo venuti qui?, si chiedono Louis e Regina, una volta sposati, loro che erano emigrati l’uno da un paesino del Sud, e l’altra da Torri del Benaco sul Garda. Per essere all’altezza di questi anni, si risponde Louis, che ha capito ben presto che restare in “periferia” non serve se si vuole entrare a testa alta nella modernità. La Storia non transita per le periferie, ma dal cuore. E Milano, dopo un lungo faticoso dopoguerra, era pronta ad alimentare nuovamente il suo mito: motore dell’economia e della tecnologia d’avanguardia italiane (Pirelli, Marelli, Lancia, Innocenti, Ignis, Candy, Mivar, Geloso per citare qualche marchio a cui si allude anche nel libro) e metropoli accogliente, dove si incontrano persone provenienti da tutta Italia per scambiarsi esperienze e idee e per lavorare fianco a fianco. Se si ha talento, in un ambiente che privilegia la meritocrazia, ce la si può fare.

Lo scrittore, in questo caso, sembra dissentire dalla posizione ideologica di molti intellettuali di quegli anni (Franco Fortini, per citarne uno) che ritenevano la fabbrica (di cui Milano e il suo hinterland pullulavano, da quelle più imponenti alle più piccole) una «grande macchina che produce infelicità», per ritrovarsi più in linea con il pensiero di Italo Calvino, secondo il quale «soltanto la civiltà della fabbrica ha potuto ridare dignità alle classi meno agiate, agli immigrati meridionali, offrendo loro una via di libertà, un’idea di lavoro quale veicolo di appagamento materiale, di riscatto, di fuga da una condizione subalterna secolare».

Perciò il Vangelo secondo Louis vuole l’operaio appagato del lavoro che svolge, soddisfatto di ricevere una busta paga alla fine del mese per mantenere decorosamente una famiglia e di vivere una vita con la lavatrice, il televisore, il frigorifero, la radio, e la Vespa prima e poi nientemeno che la Cinquecento; vuole che si senta partecipe – pur da comprimario – di grandi imprese, come quelle spaziali, per le quali il protagonista aveva coniato un aggettivo apposta: atomico (e comunque lui e i suoi vivevano già in una Milàn che l’è atomica!).

Il conflitto generazionale
Ma l’età del “miracolo economico” sarebbe stata ben presto offuscata da un male oscuro, come di riflesso accadrà nella famiglia di Louis e Regina a causa del difficile rapporto con il primogenito. Soprattutto lui, il padre, che è un uomo esuberante ma legato a schemi pedagogici tradizionali, non riuscirà a capire e a entrare in relazione con il carattere introverso e scontroso di Indiano. Con il passare degli anni, due modi di vivere e due idee di felicità li dividono: quella di chi si accontenta dell’automobile e dell’asciugacapelli, e quella di chi si interroga se Dio è morto, come recita la canzone dei Nomadi.

Due sono anche i temi di fondo che caratterizzano e si intrecciano nel romanzo di Giuseppe Lupo: da un lato, la relazione fra genitori e figli con il conseguente conflitto generazionale; dall’altro, il quadro di una Milano “sbarluscenta” ai tempi del miracolo economico e poi «sporcata dal sangue e attraversata da cortei e da grida» durante i cosiddetti “anni di piombo”.

Aveva con lucidità osservato Italo Calvino nel 1976: «Ciò che è avvenuto durante gli anni Sessanta è qualcosa che ha cambiato in profondità molti dei concetti con cui avevamo avuto a che fare, anche se si continua a chiamarli con gli stessi nomi […]. Se dovessimo dare una definizione sintetica di questo processo, potremmo dire che l’idea di uomo come soggetto della Storia è finita, e che l’antagonista che ha detronizzato l’uomo si deve ancora chiamare uomo, ma uomo ben diverso da prima».

Ebbene, queste sono parole che si adattano anche al rapporto fra Louis, il padre, e Bartolomeo, il figlio. Quando il padre, ottimista e sicuro di sé, esce di scena, tutto un mondo, fatto a sua immagine e somiglianza, se ne va; ma il figlio, che è rimasto nell’ombra, che ha rifiutato totalmente le scelte di vita del genitore, resta una figura incompiuta ed evanescente, non pienamente realizzata.

Toccherà perciò alla figlia, la sopravvissuta, riempire i vuoti della storia familiare e raccontare il retro di quella foto di quel giorno, un attimo che chiede di rimanere per sempre perché qualcuno gli ha dato la forza di uscire dal pulviscolo del tempo e di non essere scordato. In questo modo Vittoria “giustifica il proprio nome” di fronte a sé stessa e ai suoi cari, identificandosi con quel tempo nuovo (ma nuovo fino a che punto?) che, proprio a partire dalla sorprendente vittoria calcistica del 1982, avrebbe permesso all’Italia di voltar pagina e a Milano di tornare ad essere una Milano da bere.

L’ideazione di un percorso didattico
Se i colleghi avranno voglia di cogliere l’occasione per riscoprire la pregevole “biblioteca” narrativa dello studioso-scrittore di Atella, il mio consiglio, dopo quest’ultimo, è di iniziare con il suo primo romanzo: L’americano di Celenne, edito da Marsilio nel 2000, e adatto a un percorso didattico legato all’emigrazione italiana verso le Americhe nel primo Novecento.
Qui Giuseppe Lupo, con un linguaggio narrativo evocativo e dinamico, influenzato dalle cadenze del jazz e del blues, e con un’abile mescolanza di diversi stili e generi, offre al lettore uno scorcio del contesto storico-culturale italo-americano fra le due Guerre, e ci propone l’esempio di un piccolo centro della Basilicata che si rianima assorbendo il meglio che le può arrivare dalla grande nazione d’Oltreatlantico grazie al ritorno a casa di un suo figlio. Si tratta di Danny Leone, che, rocambolescamente emigrato negli Stati Uniti dopo la disfatta di Caporetto, ha fondato a Little Italy una piccola colonia di amici e conoscenti originari della Lucania. Danny alterna guadagni e perdite, subisce imprevisti e colpi di fortuna, sperimenta battute d’arresto e momenti di grande vitalità e slancio, fino alla decisione improvvisa di ritornare a vivere in Italia.

In conclusione, Giuseppe Lupo si conferma uno dei più originali narratori dell’ultimo quindicennio, e come tale, oltre che come saggista e studioso della contemporaneità, merita di essere fatto conoscere ai nostri studenti.

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Gennaro Rega

È stato docente di Lettere nei Licei. Ora è impegnato in alcune istituzioni culturali del territorio milanese, tra le quali le biblioteche di Pioltello e di Cernusco S/N e l’ACTEL di Segrate.

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