Fuori ruolo. La generazione che si giocò il futuro a dadi

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Con “La stanza profonda”, Santoni offre un ritratto della generazione dei quarantenni da una prospettiva inedita, affidata all’esperienza del gioco di ruolo.

Questa è la stanza si intitola uno dei più ispirati romanzi grafici di Gianni Pacinotti, in arte Gipi: apparso nel 2005 per i tipi di Coconino, il libro ruota attorno a una “stanza”, che è poi un garage, dove alcuni adolescenti di provincia, confinati entro una quotidianità problematica e a tratti ferocemente drammatica, si ritrovano per suonare ed esorcizzare con la musica le proprie esperienze più dolorose. La stanza profonda di Vanni Santoni (Laterza, Bari-Roma 2017) ha molto in comune con quel tipo di ambientazione: ancora un gruppo di ragazzi, solo un po’ più grandi, ancora un fazzoletto di territorio (il Valdarno, nel cuore della Toscana), ancora una “stanza” protetta, quattro pareti che tagliano fuori l’esterno offrendo rifugio e l’occasione di dedicarsi a ciò che più si ama (in questo caso i giochi di ruolo, o GdR, e in particolare Dungeons & Dragons, vero mito di molti ragazzini degli anni Ottanta e primi Novanta). In entrambi i casi a dominare è l’abisso che separa la monotona vita della provincia, poche illusioni e molte delusioni, dal sognante portato di un immaginario (musicale, ludico) di schietta matrice americana; un immaginario radicatosi nei borghi e nelle campagne della Penisola con pochissimi ritocchi e quasi senza rielaborazioni, determinando non solo mode e gusti, ma anche concezioni e percezioni della realtà. Tra i due quadri della gioventù, o ex gioventù, italiana, quello di Gipi e quello di Santoni, corrono però non poche differenze, legate solo in parte alla natura del medium.

Il fumettista toscano, nato nel 1963 e che quindi parla di ragazzi che potrebbero essergli figli, comprime la storia entro un breve arco temporale, pedina i suoi nodosi e sgraziati personaggi scavando nelle pieghe della loro soffocante quotidianità (spesso fatta di cieli immensi, di paesaggi a perdita d’occhio) per poi scoprire come solo l’angusto spazio della “stanza”, non controllato dall’ingombrante presenza degli adulti, offra loro l’occasione di scatenarsi in liberatorie performance rock. L’accento è posto soprattutto sulla dimensione esistenziale dei quattro giovani protagonisti e sul loro sodalizio fraterno, che il fatto di aver formato una band consolidata nel tempo.
Un gruppo di ragazzi, un fazzoletto di territorio, una “stanza” protetta, quattro pareti che tagliano fuori l’esterno offrendo rifugio e l’occasione di dedicarsi a ciò che più si ama: tante le analogie tra il graphic di Gipi e il romanzo di Santoni.Diversa è l’ambizione del suo corregionale Santoni, che per comporre un ritratto, appunto, della propria generazione (l’autore è nato nel 1978), si affida ai tempi lunghi della vita, tra fine dell’adolescenza e piena maturità, coprendo un ventennio di profonde trasformazioni socio-economiche e personali attraverso le vicende di persone che non sono e non saranno mai propriamente amiche, quanto legate da una divorante passione comune. Il gioco di ruolo, col suo intricato ma anche malleabile codice di regole garantite da manuali e schede, come ogni esperienza di formazione si rivela un campo di forze entro il quale misurare la tenuta dei rapporti, la capacità di affrontare le vicissitudini della vita, la possibilità di resistere a un mondo ostile e apparentemente sempre più disumano, oltre che incomprensibile (pur riconoscendo la violenza insita negli anni Ottanta e Novanta, l’autore non nasconde una certa nostalgia per il passato, e la comparazione tra i patiti dei GdR d’antan e i giocatori videoludici di oggi è tutta a sfavore dei secondi).

Particolare di una tavola di “Questa è la stanza” di Gipi.

Al di là del gioco citazionistico e dei riferimenti settoriali, talora commossi (il sentito omaggio a Gary Gygax, uno dei creatori di D&D), che fanno de La stanza profonda anche una documentata e puntuale storia dei GdR in Italia, Santoni ha in questo libro – che non siamo certi si possa definire romanzo: il risvolto di copertina lo colloca «tra il memoir e l’affresco sociale» – l’ambizione di tracciare un bilancio della propria generazione giunta alle soglie dei quarant’anni e più ancora un bilancio geo-politico di quella provincia sterminata che è l’Italia (ma anche la leggendaria America si rivelerà, in alcune delle pagine più riuscite del volume, una sorta di doppio dei lembi più marginali del nostro paese, e per certi aspetti un suo paradossale derivato).
I giochi di ruolo vengono celebrati non tanto in chiave nostalgica, o come pretesto per un’esaltazione della cultura nerd, ma in quanto esperienze narrative che prevedono forme di autorialità diffusa e compartecipazione creativa.Uno dei punti di forza del libro è rappresentato dal fatto che i GdR vengono celebrati non tanto in chiave nostalgica, o come pretesto per un’esaltazione della cultura nerd, ma in quanto esperienze narrative che prevedono forme di autorialità diffusa e compartecipazione creativa: una dimensione collettivizzante delle “campagne” di gioco – non a caso, e giustamente, apparentate al teatro – che è figlia degli anni Settanta e che oggi è rimasta solo in forme residuali, oppure diffuse ma illusorie (online si può sì giocare in modalità multiplayer, certo, ma l’invenzione è pregressa, l’esperienza eterodiretta, l’interazione a distanza). Intrecciare fantasie e tessere miti è stata insomma, per tutta una generazione, una forma di resistenza intellettuale e romanticamente “carbonara” alla discutibile qualità dei tempi, sorta di rito laico immersivo (esattamente come la musica, del resto) che «non solo non presenta vincitori ma neanche una “fine”, ed è congiuntivo, dato che mette assieme persone che inizialmente erano separate unendole in un’esperienza comune, regolata da norme condivise…» (p. 109).

Questo l’implicito assunto dei personaggi creati da Santoni: il mondo in cui viviamo ci raggiunge ovunque con modelli aggressivi e schemi omologanti, facendoci risuonare in testa ogni giorno i suoi diktat spesso violenti. Allora noi gli rispondiamo che i suoi modi di divertirsi e creare rapporti interpersonali basati sulla competitività e la sopraffazione non ci interessano: facciamo banda, scendiamo nella “stanza profonda” e a colpi di dado ci creiamo una realtà meno caotica e ingiusta («Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno», p. 131). D’altro canto, ciò su cui il libro sorvola è un rischio implicito nel giocar di ruolo (ma ogni gioco d’altronde comporta un rischio, o gioco non è): che si finisca col vivere per i personaggi, cioè in loro funzione, e che i personaggi inizino a vivere per noi, cioè al nostro posto.Mentre i ragazzi della “stanza profonda” trascorrevano le ore, le notti e gli anni a creare mondi alternativi, in superficie il mondo reale cambiava, e non in meglio. Mentre i ragazzi della “stanza profonda” trascorrevano le ore, le notti e gli anni a creare mondi alternativi, in superficie il mondo reale cambiava, e non in meglio: forse non ne hanno direttamente colpa loro, ma comunque troppo facile è il ragionamento con cui il master, cioè colui che conduce il gioco e qui anche voce narrante, si autoassolve quando, tornato alla luce dopo un buon ventennio, scopre che fuori si è fatto un deserto («c’era qualcosa, e ora non c’è niente»…, p. 23: e mi pare che il libro sia ambiguo proprio su questo punto, nel lamentare la miseria della realtà attuale, anche da un punto di vista mediatico-ludico, e al contempo nel rivendicare ai GdR un ruolo di antesignani rispetto ad alcuni elementi caratterizzanti questa stessa realtà).

Se i personaggi creati da Santoni hanno una forza e uno spessore che assicurano ai singoli frammenti della vicenda la giusta tensione e una buona coesione strutturale, qualche perplessità suscita, in chi scrive, la scelta della seconda persona narrativa: una modalità di racconto ormai sperimentata e invalsa, ma che non sempre si dimostra convincente e soprattutto in alcuni passaggi de La stanza profonda rischia di impoverire la qualità di una scrittura che ha invece, complessivamente, un’ottima tenuta, anche grazie al sottile filo di garbata ironia che la attraversa, insieme a una salutare vena di rabbia controllata.
Ci pare infatti che l’opzione del “tu” per l’agente principale della sequenza degli eventi narrati, idealmente collocato a metà strada tra soggettività esibita e oggettività finzionale, a tratti non risponda a una precisa necessità espressiva quanto al tentativo di imboccare la strada più breve verso il coinvolgimento del lettore, quasi una facile scorciatoia verso l’immedesimazione che forse questo libro, sfaccettato e complesso, ricco di spunti fecondi e affondi taglienti, avrebbe potuto non percorrere.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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