Mi nomino, dunque sono

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È una storia che nessuno voleva, quella che è raccontata da Teresa Ciabatti nel suo ultimo libro, «La più amata» (Mondadori, 2017). Certamente sgradita ai suoi familiari, tutti puntualmente nominati col loro vero nome, e probabilmente anche agli altri figuranti di questo affresco della provincia grossetana, dal boom economico agli anni Novanta del secolo scorso, che – nel migliore dei casi – appaiono al lettore nelle vesti di vittime inconsapevoli, o di servi, ma anche di carnefici e padroni irresponsabili.

Però di questa storia aveva bisogno lei, l’autrice, che scrive di suo padre – soprattutto – e di sua madre, e che ricuce la storia della sua famiglia (ricordando, collegando, inventando) per arrivare a sé stessa, per conoscersi, forse per curarsi, di certo per tenersi insieme, per ricostruirsi – così afferma nelle pagine del libro. Un’autofinzione (autofiction, si legge nella quarta di copertina), in cui persone reali – perfettamente riconoscibili, dal concessionario d’auto ai medici dell’ospedale di Orbetello – sono immerse in un mondo narrato che è invece confuso, opaco, basato su ricordi propri e altrui, pur supportato da alcuni documenti espressamente citati in fondo al libro (fotografie, cartelle cliniche, contratti di compravendita).

«Voglio sapere chi è mio marito», dice la signora Ciabatti, madre di Teresa, all’investigatore privato a cui sta chiedendo di indagare sull’uomo che ha sposato e che non riesce a capire e a conoscere fino in fondo. «Io devo sapere chi è mio marito, chiede Francesca Fabiani, non è quello che dice». Lui, il Professore, marito di Francesca e padre di Teresa, è il solo personaggio del libro a non manifestare dubbi o debolezze. È rappresentato come un monolite, inscalfibile, muto; sfaccettato, sì, e inafferrabile, forse proprio perché non manifesta curiosità per il mondo, per gli altri. Massone, fascista, figlio devoto e padre e marito padrone, Lorenzo Ciabatti sembra esistere per sé, totalmente impermeabile e noncurante nei confronti delle persone che lo circondano, le quali, invece, sono impegnate e costrette sempre, in ogni momento della loro vita, a interpretarne i bisogni, gli umori, i desideri, in modo da potergli dare soddisfazione. I dubbi, nel mondo di Lorenzo Ciabatti, si curano con le regole, oppure, nei casi più gravi, con i farmaci. Per questo la moglie – dice Teresa, scopre Teresa, ricorda Teresa – viene convinta a subire la cura del sonno: un anno trascorso a dormire nel proprio letto, un buco nero nella vita della donna e anche della figlia. Così come la figlia deve sottostare a regole che, anziché renderla autonoma e capace di gestire la propria la vita, la rendono dipendente, disorientata.

Non si tratta di un’autobiografia in senso classico, in cui il narratore, quando inizia il suo racconto, è diverso dal personaggio protagonista (il sé stesso bambino o giovane), il quale poi si sviluppa, cresce, e alla fine del percorso diventa e coincide con chi scrive, adulto o vecchio. Non è così. «Mi chiamo Teresa Ciabatti», ripete ossessivamente la narratrice ogni volta che fa una scoperta sul proprio passato o, semplicemente, inciampa in una tappa importante della propria vita. «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sette anni, e ho appena scoperto che mia nonna porta la parrucca», «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho undici anni e oggi è il mio primo giorno di scuola media”, «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, mio padre è morto da ventisei, mia madre da quattro», e poi, nell’ultima parte, fino al parossismo: «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e voglio sapere chi era mio padre», «Mi chiamo Teresa Ciabatti e mi giro e mi rigiro nel letto» … «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni. Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho dieci anni, nove, otto, sette, sei, non mi sono mai mossa da lì». Ed è vero, perché non c’è sviluppo, non c’è evoluzione, come non esiste distanza. La narratrice e la protagonista coincidono fin dal principio, e il tempo non è una linea retta, e poi la narratrice inventa, lo dice lei stessa, e d’altronde come avrebbe potuto raccontare una scena come questa, se non inventando?

Rimasti soli, nonna chiusa in cucina a rassettare, mia madre affronta mio padre.
Come ti viene in mente.
Cosa?
Regali riciclati pure ai tuoi figli.
Lui alza le spalle.
Neanche lo sforzo di comprare qualcosa.
L’ho comprati dal Cocchia.
Tanto che importa, vero? Siamo tutti marionette.
Piantala.
A te di loro non te ne frega niente.
Lui leva gli occhi al cielo.
Lei gli si fa sotto, come un uomo. Uomo a uomo. Dimmi chi sei, chi cazzo sei.
Tu stai male. 
La società con Boero, continua lei, adesso la sua voce è spezzata.
Che ti vai a inventare.
Voglio sapere.Lui tace, nel tentativo di non perdere la pazienza.
Il Pozzarello venduto, tutto sparito, dimmi perché ci odi così tanto, Renzo?
Sempre silenzio.
A chi li dai i soldi, eh? Alle tue amichette, ai tuoi amichetti…
Lui scatta in piedi. Me ne vado.
Lei cerca di trattenerlo. Il compleanno dei ragazzi.
Lui prende il soprabito.
Non puoi, cambia tono lei. Per favore Renzo, supplica.
Lui s’avvia alla porta.
Rimani, prova ancora lei. Che ha fatto, dio mio che ha fatto, è colpa sua, tutta colpa sua. Lui apre la porta e se ne va, lasciandola confusa, smarrita. 

E alla fine del libro, e di questo apparente bagno di realtà in cui la verità della vita familiare sembra rivelarsi in tutta la sua abiezione (invitando certo anche il lettore al voyeurismo, allo sguardo morboso), ciò che rimane, ciò che colpisce è quel desiderio di esistenza – di esistenza non per sé ma per gli altri – dell’autrice, che con la sua furia autonominalistica sembra ricordarci l’inconsistenza di tutto ciò che non riesce ad essere, almeno per qualcuno, almeno per un attimo, letteratura.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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