Nativi digitali si diventa

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Ci eravamo già occupati, su queste pagine, del dibattito sui nativi digitali, ripubblicando tra l’altro i due articoli di Prensky che, nel 2001, avevano dato inizio alla discussione (Nativi digitali e immigrati digitali e La mente nuova dei nativi digitali. Nel suo recente libro Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media lo psicologo Giuseppe Riva fornisce ora un quadro sintetico e completo degli effetti delle nuove tecnologie sul modo di pensare, sentire e relazionarsi di coloro che le utilizzano abitualmente, con particolare attenzione ai giovani.

Tirati per la giacca dai sempre più numerosi ed eccitati apologeti delle nuove tecnologie e, in direzione contraria, dai loro detrattori, gli insegnanti e i ricercatori più moderati possono tirare un sospiro di sollievo leggendo questo libro di Giuseppe Riva, che si colloca esattamente a metà strada tra le due posizioni e, cosa ben più importante, mette a disposizione di tutti alcuni strumenti concettuali fondamentali per approfondire il ragionamento sull’impatto dei nuovi media nella vita delle persone.
Intanto, trovo ragionevole la proposta di continuare a usare l’espressione nativi digitali, ormai entrata nell’uso, cambiandone tuttavia il significato. È necessario, infatti, rivedere alcune delle affermazioni di Prensky e degli altri “apologeti”, i quali sostengono, in sintesi, che:
1. tutti i membri delle nuove generazioni sono trasformati dai media;
2. tale trasformazione riguarda i comportamenti, i processi cognitivi e la dimensione simbolica,
3. e avviene nella prima fase della vita del soggetto, che si differenzia così dalle generazioni precedenti;
4. il risultato della trasformazione è la “trasparenza” delle tecnologie, cioè il loro uso immediato e intuitivo.
Ora, dice Riva, non c’è bisogno di essere d’accordo con tutte queste ipotesi. In particolare, egli concorda sul secondo e sul quarto punto, che evidenziano il cambiamento provocato dalle tecnologie anche a livello mentale, ma non approva l’idea che questo cambiamento avvenga semplicemente nascendo in un determinato momento o contesto, e afferma con decisione che “un nativo digitale non è qualcuno che fin dalla nascita è in grado di usare le tecnologie, ma piuttosto chi le sa usare intuitivamente, senza sforzo. Questo però non avviene per caso. Si diventa nativi digitali solo dedicando una quantità significativa di tempo e di energie all’interazione quotidiana con i nuovi media” (p. 17).

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È efficace l’esempio che egli fa del pianista professionista, che nessuno di noi ritiene un “nativo musicale”, così come, aggiungo io, dovremmo smettere di pensare a una persona che conversa, legge e scrive in una determinata lingua come a un “madrelingua”, un “nativo italiano” (o francese, mandarino ecc.) che abbia naturalmente acquisito delle capacità trasmesse dall’ambiente. In questo modo, infatti, si corre il rischio di sottovalutare l’importanza dell’esercizio di una determinata capacità al fine di diventare competenti nell’uso di una qualsiasi tecnologia, libro, penna, tablet o smartphone che sia, e, quindi, di trascurare il valore dell’educazione pubblica e dell’accesso libero ai contenuti nel colmare qualsiasi tipo di digital divide.
D’altra parte, non si deve sminuire – come invece sembra fare, nel dibattito italiano, Roberto Casati nel suo Contro il colonialismo digitale – l’impatto dei media digitali sui processi cognitivi e sociali, che, dal punto di vista della psicologia, sono evidenti anche prima di avere evidenze sperimentali. È infatti già provato – ed è oggetto di studio dell’ergonomia, della psicologia culturale e, oggi, della cyberpsicologia – che “ogni medium obbliga il soggetto che lo usa ad adattarsi a esso e attraverso questo processo lo cambia” (p. 19). I media digitali, basati su rappresentazioni numeriche e manipolabili mediante algoritmi, si differenziano dai loro predecessori per la necessità di interagire con essi mediante un’interfaccia (per esempio un sistema operativo a finestre, un foglio di calcolo, una qualsiasi app, un sito internet, ecc.) che è indipendente dalla componente fisica del medium. Scrive Riva a p. 30:
In pratica, nei media tradizionali le caratteristiche del mezzo che consentono il collegamento e la fruizione dei contenuti (interfaccia) sono stabili e tendono a non variare tra loro. Questo non è più vero nel mondo digitale: mentre in un medium classico l’interfaccia si fonde con la componente fisica – la cornetta del telefono o la manopola della radio fanno parte della struttura fisica del medium che le contiene – nei media digitali l’interfaccia si separa dalla struttura fisica del medium acquisendo vita propria.

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Per questo, e anche grazie allo sviluppo rapidissimo di internet e del cosiddetto web 2.0, che consente di manipolare le informazioni direttamente attraverso programmi online, e poi delle tecnologie touch e delle app, che trasformano continuamente l’uso di uno smartphone, modificandone le funzioni agendo esclusivamente sull’interfaccia, i media digitali rappresentano un caso unico nella storia dei media, e il cambiamento da essi generato è radicalmente diverso, al punto da farci parlare di nativi digitali: persone che, qualsiasi età esse abbiano, attraverso un uso massiccio dei media digitali, diventano capaci di usare la tecnologia intuitivamente e che, con le loro pratiche, modificano a loro volta e definiscono le modalità d’uso e i significati attribuiti ai diversi media.
Una volta constatata l’importanza del cambiamento, Riva passa all’analisi dei processi in corso e, nel secondo capitolo, all’individuazione delle fasi che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’interfaccia dei nuovi media, alle quali sono associate altrettante “generazioni” di nativi digitali. È importante osservarle da vicino, perché per ciascuna di esse l’autore ha individuato gli strumenti utilizzati e, soprattutto, le opportunità (affordance, uno dei concetti chiave messi in gioco da Riva nella sua argomentazione) offerte e le nuove pratiche e i significati sviluppati.
La prima generazione di nativi digitali è definita generazione text, poiché utilizza interfaccia testuali (email, chat, newsgroup e sms) che consentono di “comunicare e di creare comunità virtuali svincolate da limiti spazio-temporali”. I cambiamenti più significativi portati dalla diffusione e dall’interiorizzazione di questi media testuali sono tre, ai quali, come farà per ciascuno degli undici cambiamenti individuati, Riva dedica una specifica trattazione:
1. la progressiva scomparsa del concetto di luogo come veniva inteso dalle generazioni precedenti;
2. la nascita di comunità virtuali, basate prevalentemente su relazioni digitali;
3. la creazione di un nuovo linguaggio in grado di sfruttare tutte le opportunità del medium (argomento quest’ultimo particolarmente rilevante per gli studi umanistici e per l’insegnamento della lingua).
La seconda fase è quella della generazione web, e anche le trasformazioni che essa ha portato hanno un impatto significativo su tutti coloro che accedono alle informazioni attraverso internet:
4. la disponibilità di un’intelligenza collettiva distribuita, che consente l’accesso a qualsiasi fonte di informazione;
5. la dematerializzazione dei contenuti e la conseguente diffusione della pirateria;
6. la trasformazione dello spettatore in “spettattore”, che partecipa attivamente alla selezione delle fonti di informazione.

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La generazione social media usa come interfaccia il cosiddetto web 2.0 ed è caratterizzata da una nuova opportunità: la possibilità di creare, condividere e commentare con facilità contenuti multimediali (p. 51). Anche in questo caso, Riva parla di tre cambiamenti significativi:
7. la trasformazione dello spettatore in “spettautore” e in “commentautore” (a mio parere, e non solo, con grandi conseguenze sul sistema letterario e sulle humanities);
8. la trasformazione del ruolo del corpo all’interno dei processi comunicativi e relazionali;
9. la nascita di un nuovo spazio sociale, l’“interrealtà”, in cui si fondono reti digitali online e reti sociali offline.
Infine, la generazione “touch”, caratterizzata dall’uso dell’interfaccia touch-screen di smartphone e tablet, è la prima a sperimentare le opportunità della manipolazione diretta e, soprattutto, della possibilità di espandere le potenzialità del medesimo dispositivo mobile per consentire di condurre molteplici attività, dal gioco all’accesso ai social network, dal disegno alla scrittura, dall’ascolto di musica alla creazione e al montaggio di video, ecc.
I cambiamenti più significativi sono due:
10. la nascita del baby nativo digitale, “che può accedere alle opportunità dei nuovi media anche senza avere competenze linguistiche” (p. 61);
11. la trasformazione dei messaggi in esperienze, rendendo l’interazione con i nuovi media il più possibile simile a quella che ciascuno di noi ha all’interno di un ambiente reale.
Con queste premesse – che già da sole valgono la lettura del libro – l’autore approfondisce poi, in tre densi capitoli i principali effetti dei nuovi media a livello cognitivo (capitolo terzo “La mente dei nativi digitali”), a livello identitario (capitolo quarto “L’identità del nativo digitale”) e sociale (capitolo quinto “Le relazioni dei nativi digitali”), mettendo a frutto le principali acquisizioni della psicologia sociale e della sociologia della comunicazione e dedicando ampio spazio a illustrare gli strumenti teorici utilizzati per il suo ragionamento.
Di particolare rilievo, ai fini del dibattito sulla media education e sull’uso e abuso delle tecnologie digitali, sono gli argomenti relativi alla modificazione, nei nativi digitali (che, lo ricordo, usano in modo intuitivo le tecnologie), della capacità di riconoscere e sperimentare le emozioni (pp. 79-88). Da queste pagine emerge forte – sulla scia di quanto affermato già dal neuroscienziato Marco Iacoboni e da Goleman e, mi pare di poter dire, in sintonia con quanto affermato in altra sede da Martha Nussbaum riguardo alla capacità empatica – un richiamo ai sistemi educativi nel gestire il cambiamento in corso, al fine di salvaguardare le persone dagli effetti manipolatori dello storytelling, ma anche di favorire una sempre più necessaria educazione delle emozioni.
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Altrettanto utili sono poi le pagine in cui l’autore affronta alcuni dei principali paradossi che caratterizzano l’identità del nativo digitale, il quale si trova a dover gestire nuove opportunità (la cui rinuncia può portare a un crescente divario rispetto al resto della popolazione) e nuovi problemi. Mi limito a segnalarne due:
– il contrasto tra la possibilità offerta dai social network di gestire la propria identità sociale, anche promuovendo se stessi e favorendo una determinata rappresentazione di sé (personal branding), e il problema della gestione della privacy e della necessità di doversi preoccupare delle tracce lasciate nel tempo – in maniera indelebile – sul web;
– il contrasto tra l’opportunità di poter gestire in modo efficace i propri “legami deboli” (con i semplici conoscenti, coi quali non si trattengono rapporti stabili e duraturi) che di solito, prima dei social network, erano affidati ad incontri casuali, e il problema di non poterli distinguere, poiché sui social la comunicazione e la rappresentazione di sé è offerta a tutti allo stesso modo e sullo stesso livello.
Infine, nel sesto e ultimo capitolo (“Educare il nativo digitale”), Riva si rifà ad alcuni classici del pensiero pedagogico e della psicologia dello sviluppo (Piaget, Vygotskij, Bruner) per individuare tre differenti livelli di apprendimento e, per ciascuno di essi, indicare il contributo che può venire dalle tecnologie in ambito educativo (pp. 151-60). Si tratta di poche pagine, che rischiano di apparire insignificanti rispetto all’ormai debordante produzione di saggi e manuali di tecnologie dell’educazione. Dopo questa lunga disamina, non svelerò il loro contenuto, lasciando al lettore un motivo in più per procurarsi il libro. Il loro significato, mi pare di capire, sta tutto nella loro posizione finale, a conclusione di un lungo ragionamento teso soprattutto a fornire ai lettori gli strumenti affinché essi stessi, in modo autonomo, possano prender parte al dibattito in corso. Senza idee preconcette e senza tesi preconfezionate. Con la convinzione, esplicitata solo nelle ultime pagine, che per portare le tecnologie a scuola non è necessario essere o diventare dei nativi digitali. Basta chiedere ai docenti, sostiene Riva, “di adattare le proprie conoscenze e capacità educative alle nuove opportunità offerte dalle nuove tecnologie” (p. 162), con un evidente primato assegnato alle competenze didattiche rispetto a quelle digitali e, soprattutto, con una rivendicazione forte – e implicita – del ruolo delle scienze psicologiche, pedagogiche e sociologiche, le quali possono già offrire gli strumenti per uscire dal guado che conduce dall’apologia al rifiuto, dal rifiuto all’apologia. Per iniziare ad adeguare i sistemi dell’istruzione, il punto di partenza, ci lascia intuire Riva, non è la dotazione di strumenti, e neanche l’addestramento dei docenti al loro utilizzo o il passaggio dal libro all’e-book, per citare solo alcuni dei temi all’ordine del giorno presso i decisori. Occorre semmai lavorare con gli strumenti della ricerca per capire a fondo i fenomeni, mettendo a frutto i contributi di tutte le discipline scientifiche. Insomma, in estrema sintesi, occorre pensare alla scuola e ai sistemi dell’istruzione pubblici in modo serio, come ormai non si fa da troppo tempo, là fuori.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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