Riconoscere, valorizzare… e prime terapie

Tempo di lettura stimato: 7 minuti
Elena Rausa (qui il suo pezzo) avverte con dolore che si sta sperimentando una scuola superiore a quattro anni, concepita in maniera da portare alla mortificazione dell’impianto liceale attuale, in nome di una svolta tecnocratica. Sandro Invidia (qui il suo pezzo), pur con partecipazione, tenendo però dati alla mano e senza censurare le domande scomode, richiama la tesi di buon senso secondo cui non si può continuare a difendere un modello di istruzione che pare pieno di pesanti limiti. Vorrei riflettere con loro e sui fatti, perché mi pare che vi siano alcune cose da evitare e altre da promuovere, come terapie a portata di mano. Il testo, perciò, fin dal titolo vuole continuare la conversazione rilanciata da Invidia col suo “Sogni e sintomi”.

corridoioliceo

Proviamo intanto a fare un po’ di decostruzione. Una delle cose più irritanti in occasione di questa sperimentazione è la retorica di bassa lega che l’accompagna (vedi ad esempio qui). Ci si aspetterebbe che una sperimentazione sia un laboratorio, che in essa si osservi cosa succede, per capire se ed eventualmente come e fino a che punto procedere. Invece sembra che i giochi siano fatti e che si costruiscano degli eventi per giustificare poi su di essi ciò che tanto è già stato deciso. Si parla perciò delle sperimentazioni come “scuola 2.0”, così che di fronte a esse nessuno oserà difendere l’esistente, ovviamente uno squallido 1.0 che nessuno vuole più e rispetto al quale l’unica alternativa sarà quella già decisa. Si parla poi di didattica digitale, così che nessuno oserà difendere le obsolete didattiche tradizionali. I docenti della scuola del futuro devono necessariamente essere facilitatori, perché tanto i “maestri” saranno videoregistrati (con basso costo e una volta per tutte) e si potranno rivedere a piacere. Un docente facilitatore non serve che abbia molte competenze, basta che sappia schiacciare qualche pulsante sul tablet. In tal modo, anche se il sistema operativo va in crash, il livello di ansia dei nostri ragazzi sarà sotto controllo. Soprattutto, il docente-tutor dovrà essere sempre disponibile: mattina, pomeriggio e magari anche di sera. Egli sarà sempre contattabile: via mail, sms o in video conferenza. Del resto, dovrà pur guadagnarsi il diritto a non essere in esubero!

Vedo molti buoni motivi economici per togliere un anno dalle superiori, vedo poi ottime ragioni di pecunia per fare dei docenti, oggi con professionalità e – spesso – alte competenze, dei semplici tutor. Non mi sfugge certo che l’informatizzazione renderà disponibili strumenti per alleggerire il costo della didattica. Certo, soprattutto in tempi di crisi, l’argomento soldi non lascia insensibili e non può essere dismesso, scrollando le spalle e invocando, ormai senza alcuna possibilità che ci si creda, maggiori investimenti.

Proprio in tempi di crisi ci sono alcune cose che, a mio parere, si devono fare e altre che vanno assolutamente evitate. Comincio da queste ultime. Quando si pianifica una riforma, soprattutto se si tratta del sistema di istruzione, non si deve usare il denaro come primo criterio di scelta. Intendiamoci, il realismo è doveroso: il denaro finisce col fissare l’orizzonte dell’effettiva fattibilità. Il punto è che i criteri vanno cercati nelle finalità pedagogiche generali che si reputano urgenti. Altrimenti, si finisce per fare di un mezzo, il danaro, ciò che fissa l’orizzonte, ciò che determina il fine. Qual è, dunque, il criterio pedagogico per cui si taglia un anno alle superiori? Perché non si sperimenta il taglio di un anno alla secondaria di primo grado? Perché non alle primarie? Perché non si pensa a un nuovo disegno compattante l’attuale secondaria di primo grado col biennio superiore? E poi, soprattutto, perché ridurre il percorso formativo di un anno? L’allungo della formazione universitaria sta premendo perché sia compressa quella secondaria, ma che ciò debba essere fatto ed eventualmente come è tutto da esplorare. Se si volesse davvero cercare le strade del futuro, bisognerebbe avere in mente alcuni scenari alternativi i quali andrebbero sperimentati comparativamente. Per meno di questo, l’operazione svolta e che in effetti ora si svolge è di facciata, un trucco retorico per convincere il gregge belante che non si può proprio fare altrimenti.

La seconda cosa che va evitata è di cambiare di fretta, sulla spinta dei malumori col forcone, avendo come riferimento unicamente le parole d’ordine del momento. Agire di corsa e per l’emozione è pericoloso e a maggior ragione su temi tanto complessi e delicati che riguardano il destino delle generazioni future, la vita dei nostri figli. Oggi viviamo la stagione del furore digitale e sembra che se il prof. è digitale, se il libro è digitale, magari fatto in casa, e se l’aula è dotata di tablet e LIM, allora e solo allora si può stare tranquilli. Sembra che si perda di vista che l’educazione è prima di tutto, per gli studenti, un lavoro su di sé, svolto nella trama di un rapporto personale e umano con figure adulte e competenti che hanno la funzione di guidare all’acquisizione di conoscenze e alla maturazione della personalità del giovane. Naturalmente la tecnica è utile, a volte decisiva, ma non è una panacea.

Quanto alle cose da fare. Come ho avuto modo di scrivere di recente (la discussione riguardava un settore specifico, ma il principio vale anche qui) quando si vuole rivoluzionare un sistema, bisogna valutare accuratamente l’esistente, per non rischiare di buttar via le cose buone. Su questo molto andrebbe fatto, perché noi italiani siamo bravissimi a dire male di noi stessi (e del resto la frase precedente l’ho scritta di getto), ma facciamo più fatica a rilevare il tanto di buono che mettiamo in atto e di cui siamo capaci. Bisogna insomma guardare al positivo che nelle scuole viene svolto, mettere in rete le buone esperienze, raccontare le iniziative che vengono costruite, diffonderle, condividerle, imparando dai colleghi.

Bisogna poi valutare se ci sono metodi semplici per migliorare ciò che già c’è. Personalmente ritengo vi siano. Per esempio e prima di altre cose, comincio con l’osservare che gli insegnanti, laureati e abilitati, sono abbandonati a se stessi. Nessuno li valuta, mai. So che sono essi stessi a fare molta resistenza su questo e anche per ragioni serie. Nondimeno è nell’interesse di tutti che si trovino su questo dei compromessi e che si identifichino delle strade percorribili. Non vi è oggi alcun sistema organizzato che richieda e garantisca il loro aggiornamento. Bisogna urgentemente invertire la rotta: gli investimenti a pioggia nel digitale stanno assorbendo risorse molto importanti, portando nelle scuole tecnologia già obsoleta: andando al risparmio si acquistano materiali che, per i ritmi dell’informatica, sono già vecchi appena comprati. Gli investimenti nell’informatica andrebbero razionalizzati e limitati. Invece andrebbe premiato l’aggiornamento, la messa in comune delle esperienze didattiche, l’autoformazione, l’acquisizione di professionalità in itinere. Si tratta di attività che vanno promosse e premiate: un sistema che valorizzi anche economicamente i risultati non potrebbe che portare a ulteriori risultati, gratificazione, maggiore autostima e motivazione a lavorare, oltre che – diciamolo – maggiore riconoscimento sociale. Partendo dal basso e dal semplice si ottiene spesso molto di più che con le pretese di rivoluzionare tutto dall’alto a colpi di spugna e scatti verso il… non si sa cosa. Vanno poi attivati sistemi di gratificazione che premino anche le scuole in nome dei risultati conseguiti, che possono documentare iniziative di qualità e alta formazione, che mostrino l’attivazione di efficaci percorsi di recupero e sostegno: ciò toglierebbe la cappa grigia che oggi è sul sistema di istruzione e darebbe ossigeno alle idee, al desiderio di crescere del sistema e incentivi all’iniziativa personale e locale. Molto della digitalizzazione potrebbe poi essere compiuto con sgravi fiscali importanti per gli acquisti informatici operati dalla classe docente stessa: in tal modo, oltre a riconoscere le onerose spese sostenute per lavoro, si faciliterebbe l’accesso ai docenti a strumenti all’altezza delle esigenze effettive, come non avviene ora perché l’amministrazione deve acquistare al risparmio.

Non si tratta, insomma, di difendere l’esistente, ma di non perdere il buono che c’è e, soprattutto, di non perdere l’occasione di attivare misure semplici, efficaci e a portata di mano.

Condividi:

Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it