La scuola da sola non basta

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Il rapporto curato da Gabriella Di Francesco sulle competenze per vivere e lavorare oggi mostra in modo chiaro come l’Italia, dal punto di vista delle competenze di base della popolazione adulta, migliori leggermente rispetto al passato senza però crescere rispetto agli altri paesi, e quindi assestandosi alle ultime posizioni tra le nazioni più sviluppate.

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Preso atto del deficit e della perdurante incapacità di colmarlo, è utile andare subito a leggere il paragrafo 1.4 “La lettura dei dati in termini di nessi di causa-effetto”, nel quale si mette in evidenza il potenziale ruolo, nell’incrementare il livello di competenze, giocato da:
– i processi educativi e formativi;
– lo svolgimento di una professione altamente qualificata;
– il vivere in un contesto culturale stimolante.

È evidente, infatti, ma non scontato, che “Le competenze evolvono in relazione alla partecipazione a contesti sociali più o meno ricchi” (p. 19), e che esiste una correlazione forte tra la vita sociale delle persone, che influenza notevolmente il livello di competenza, e i processi di selezione che la società stessa mette in atto, sulla base dei livelli di competenza percepiti, per consentire o meno l’accesso delle persone a determinati ambienti.

Si legge alle pagine 19-20 del rapporto:
Lo svolgimento di una occupazione sfidante e ricca di contenuti richiede un consistente bagaglio di competenze e di potenzialità in ingresso (processo selettivo), ma costituisce nello stesso tempo una forte opportunità di ulteriore sviluppo e potenziamento delle competenze (effetto di socializzazione). Al contrario, scivolare in contesti sociali poveri di stimoli e di richieste per l’individuo (inattività; disoccupazione; pensionamento) può avere un effetto di progressivo, ulteriore impoverimento delle competenze e di riduzione del potenziale. In breve, si può ritenere che le competenze delle persone siano significativamente influenzate dal contesto in cui opera la persona stessa.

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Si può quindi parlare di circuiti virtuosi o viziosi che fanno sì che alcuni individui, con una buona dotazione di partenza delle competenze, selezionino o siano selezionati in ambienti sociali favorevoli a uno sviluppo ulteriore delle proprie competenze, mentre altre persone, con un bagaglio di competenze povero, abbiano accesso ad ambienti sociali relativamente deprivati e quindi non abbiano la possibilità di incrementare o mantenere il proprio capitale culturale.

Si tratta di considerazioni che possono sembrare ovvie, ma che dovrebbero a mio avviso essere usate per sottolineare il carattere “classista” della scuola italiana (che non riesce a rompere i circuiti virtuosi o viziosi che tengono le persone ancorate al loro background culturale), e soprattutto per cominciare a vedere la scuola come uno degli attori del sistema educativo.

Per questo – e ci saranno tempo e spazio per portare altri argomenti a sostegno della tesi – ritengo che le riforme della scuola intraprese nell’ultimo decennio siano assolutamente irrilevanti rispetto all’introduzione dell’autonomia scolastica, la riforma più importante che sia stata fatta per collocare la scuola all’interno della comunità di appartenenza. Una riforma che – diciamolo pure ai ministri e ai loro tecnici – è stata di fatto svuotata gradualmente di senso e di risorse, senza tuttavia mai avere il coraggio di annullarla per tornare a un rinnovato centralismo statale. Ma dovrebbe essere evidente l’inutilità del continuare a scrivere e riscrivere linee guida o indicazioni nazionali e del dibattere su conoscenze e competenze senza provvedere a una riforma del ruolo dei consigli di classe, dell’attribuzione dei docenti alle scuole e della formazione e valutazione degli insegnanti.

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Inoltre dovrebbe essere evidente che la “causa” degli scarsi apprendimenti non può essere considerata in via esclusiva la scuola intesa come sistema dell’istruzione. L’appello al cambiamento andrebbe rivolto anche a coloro che, mantenendo lo Stato un ruolo forte nell’industria dei contenuti (vedi soprattutto la Rai), hanno utilizzato le sue enormi potenzialità per rafforzare i circuiti viziosi producendo trasmissioni e programmi funzionali alla costruzione di una cultura dell’analfabetismo emotivo e morale.

Infine, è altrettanto evidente che lo strumento più efficace di cui lo Stato dispone oggi per rompere il circuito vizioso tra background familiare culturalmente svantaggiato e livelli di competenza dei figli è l’educazione degli adulti: un settore non solo da riformare ma, soprattutto, da rilanciare.

Come ai tempi di Telescuola e Non è mai troppo tardi del maestro Manzi, è oggi necessario valorizzare al meglio gli strumenti a disposizione per rafforzare la scuola degli adulti, per gli adulti e con gli adulti, perché senza la collaborazione delle famiglie e degli adulti di riferimento non credo sia possibile scalare le classifiche OCSE delle competenze di base.

La scuola da sola non basta.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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