Pro e contro il tablet – Le vittime dell’ovvio

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Vorrei ripercorrere e riflettere su un dibattito sviluppatosi su IlSussidiario, molto sensibile ai temi del digitale, nei giorni scorsi. Il tema del contendere è il tablet (e sullo sfondo il digitale) a scuola.

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Il 23 settembre usciva un pezzo di Sante Maletta dal titolo «Non sarà un tablet a “dirci” perché lo usiamo…». Il pezzo di Maletta offre una sintesi dei principali temi del libro di Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale (libro che, a maggio, avevo presentato su La Ricerca, qui). Maletta ripercorre le critiche di Casati ai colonialisti digitali, cioè a coloro che ritengono che poiché si può passare un qualcosa in digitale, allora lo si deve passare. La posizione di Maletta, sulla scia di certe tesi di Casati, è che: “La mentalità comune continua a lanciare il proprio mantra: ‘occorre portare il mondo dentro la scuola attraverso la tecnologia’. Il buon senso invece suggerisce sempre più timidamente: ‘difendi la scuola dall’ammaliante aggressività della tecnologia’. E questo non per tenere il mondo fuori dalla scuola, ma proprio per il motivo opposto, per permetterne una scoperta graduale, capace di coglierne i valori estetici e morali, di indagarne il senso, di coglierne le connessioni segrete”.
Per contro, il testo di Pietro Crivellente, «Lasciar fuori iPad e tablet? Una “tentazione” pericolosa», uscito lo scorso 5 ottobre. L’autore comincia, riconoscendo che quando si tratta di questi temi bisogna sapersi scrollare di dosso le “incrostazioni acritiche e modaiole” che ci si porta dietro. Nondimeno, egli non condivide la proposta di Maletta di lasciare fuori dalla scuola tutto ciò che è tecnologia, giudicandola una proposta “non verosimilmente percorribile”. Egli non cassa in blocco la proposta di Maletta, aprendo alla possibilità che essa possa essere accolta per i primi cicli. Crivellente concede poi molto alle considerazioni di Casati-Maletta: per esempio che la nozione di “nativo digitale” vada rivista e che il tablet non è la soluzione di tutto. Egli, inoltre, riconosce che è talvolta salutare che i cambiamenti, specie se bruschi o poco chiari, generino una buona dose di diffidenza. Crivellente punta tutto sulla discrezionalità del docente: “La scelta di se e come dotare uno studente di più o meno strumenti tecnologici per lo studio e l’apprendimento di una materia è, in fondo, ancora del docente […] Chi meglio di lui può decidere di quali strumenti avvalersi per una migliore comunicazione dei suoi saperi? Chi meglio di lui sarebbe in grado di scegliere il modo migliore con cui l’alunno possa entrare in contatto e far proprie le conoscenze della materia?”.
Già, chi meglio del docente? In realtà quello che avviene e che, prevedibilmente, avverrà nel futuro prossimo è che il docente conta ben poco e conterà sempre meno. Le politiche di digitalizzazione sono scelte dal Governo che stabilisce i fondi per il digitale. Il Governo, per dire una cosa ovvia che però non dovrebbe essere tale, non si cura certo di sentire cosa hanno da dire i docenti, al riguardo: è ovvio che vogliano il progresso. Sulla base delle risorse che effettivamente vengono poi allocate (e non c’è dubbio che in tempi di magra assistiamo a uno sforzo significativo che penalizza altro nella scuola), i Dirigenti decidono come usare le risorse, condizionando dall’alto la pratica didattica. è ovvio che i professori desiderino essere all’avanguardia. Molto spesso (se non quasi sempre) i Dirigenti scolastici decidono il da farsi, senza consultarsi e confrontarsi con l’utilizzatore sul campo, cioè il docente. Sono loro e non il docente, inoltre, a decidere se dotare gli studenti di strumenti tecnologici. Il docente, quando poi si trova tra le mani gli strumenti che altri gli forniscono e per i quali quasi sempre non è stato adeguatamente formato, è ancora una volta vittima dell’ovvio: l’Editore doveva ovviamente fornire strumenti digitali che accompagnassero il manuale e lo ha fatto nel modo in cui gli sembrava ovvio. Il docente allora scopre una nuova amara verità: i software didattici molto spesso sono preparati da Editori che non hanno prestato la dovuta attenzione all’utilizzatore finale. Chi prepara il software soventelo fa coniugando le esigenze della programmazione con quelle editoriali, ma con scarsa attenzione alle esigenze del docente. Perciò ci sono software anche buoni che non girano su tutte le piattaforme, altri girano su tutte, ma non sono implementabili con le tecnologie a disposizione, spesso obsolete nei terminali o nella tecnologia di connessione (colpa di altri dall’Editore? chiedete a Google il cui motore di enorme successo può girare anche su supporti di bassa potenza!). Altri software sono molto rigidi e poco personalizzabili, altri ancora sono di così difficile accessibilità da scoraggiare l’utilizzo.
Insomma, in tutte le discussioni sul digitale il professore, quello che dovrebbe essere ascoltato col massimo dell’attenzione, tace, costretto al silenzio. Sono gli altri a decidere e nessuno di loro, che pure crede di lavorare per lui, ha tempo di prestargli ascolto. La tentazione è di concluderne che non sarà un tablet a dire al docente perché lo usa, ma neanche qualcuno di quelli che hanno fatto di tutto per metterglielo in mano: perché ce l’ha, è ovvio.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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