Drop-out: storia di un rovesciamento

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L’obbligo di istruzione in Italia dura fino ai 16 anni; si tratta di un termine con connotazione anagrafica (il compimento dei sedici anni). Dai 16 anni si passa al diritto/dovere all’istruzione e formazione, che termina con il conseguimento di una qualifica di secondo livello EQF (European Qualification Framework). In questo secondo caso, dunque, non è il compimento dei diciotto anni, ma il conseguimento di un titolo (attraverso un contratto di apprendista minorenne, mediante un percorso di qualifica nella formazione professionale o tramite il compimento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado) a determinarne l’assolvimento.

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Il decreto ministeriale del 22 agosto 2007 (e le successive linee guida del 27 dicembre dello stesso anno) ha introdotto come primo obiettivo dei percorsi di istruzione il conseguimento di sedici competenze di base riunite in quattro assi culturali. Si tratta, pertanto, di obiettivi di apprendimento espressi in termini di competenze. Teoricamente, quelle competenze dovrebbero essere raggiunte dall’intera popolazione giovanile italiana entro i sedici anni, ma di fatto ci troviamo in una situazione molto particolare. I ragazzi che escono dal sistema di istruzione vengono “certificati” dalla scuola di provenienza in relazione al possesso o al non possesso delle competenze (o di alcune di esse) con relativa stima del loro livello (base, intermedio, avanzato). In caso di esito positivo relativamente a una o più competenze, coloro che si sono trovati fuori dai sistemi, in vacanza dell’applicazione della legge, possono essere certificati anche dai centri per l’impiego.
I ragazzi che a sedici anni scelgono di interrompere il percorso di istruzione sono comunemente denominati, con un’espressione tanto infelice quanto veritiera, drop-out (coloro che sono “spinti fuori”, “cacciati fuori”, “lasciati andare”). Le scelte possibili sono: proseguire il percorso di istruzione sino al conseguimento di un diploma, inserirsi nel mondo del lavoro con un contratto di apprendista minore, oppure scegliere un percorso di formazione professionale. Molti di loro “scelgono” un percorso di formazione professionale tra i pochi proposti in ambito provinciale o regionale (con una “scelta”, dunque, limitata a pochi profili o a figure professionali, come sono definite dall’Accordo Stato-Regioni).
Per il ragazzo o la ragazza che si inserisce senza possedere alcuna competenza nelle Regioni in cui sono previsti percorsi di recupero delle medesime competenze di base, non si presenta alcun problema. I problemi si pongono, invece, laddove vi sia una certificazione parziale delle sedici competenze di base. Quale processo è stato seguito per la loro rilevazione? Chi lo ha verificato? Tra scuole ed enti che gestiscono la “messa a livello”, c’è simmetria di procedure? Vi sono sistemi di valutazione simili? C’è un riferimento comune? Purtroppo la risposta è “no” a ognuna di queste domande. Lasciando alla scuola l’onere e l’onore della certificazione, tutti questi problemi rimangono aperti e dovranno essere risolti quanto prima.
Poniamo, ad esempio, che Giovanna arrivi a un percorso di “recupero delle competenze di base” con tre competenze certificate dalla scuola di provenienza (trascuriamo, per il momento, il livello di padronanza che le è stato attribuito). Come ha fatto l’istituto ad assegnarle una padronanza perlomeno sufficiente di queste competenze? Il decreto del Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini (il numero 9 del 2010) che istituisce il modello di certificato (si tratta, né più né meno, di una declaratoria) non dice nulla a proposito della modalità per rilevare queste competenze prima di certificarle. Molto spesso, dunque, Giovanna avrà ricevuto una valutazione che è stata trasferita tout-court dalla valutazione sommativa relativa alle discipline a una valutazione per competenze. Se Giovanna aveva la sufficienza in italiano, avrà, molto probabilmente, certificate positivamente la maggior parte delle competenze dell’asse linguistico. La didattica sarà stata improntata, con altissima probabilità, su contenuti e nozioni, la valutazione ne avrà verificato il fissaggio, e la certificazione, infine, attesterà le competenze di Giovanna.

I drop-out
I drop-out sono ragazzi e ragazze che, nella quasi totalità dei casi, hanno un rapporto difficile e complesso con il concetto stesso di “stare in aula”. Lo stare in aula ha comunque rappresentato una delle occupazioni che ha impegnato più tempo nella loro vita; qui hanno intessuto e rotto relazioni, hanno sperimentato emozioni diverse, hanno avuto conflitti forti; i loro percorsi formativi sono stati, quasi sempre, accidentati, conflittuali, svilenti, non valorizzanti.
Alcuni hanno un’opinione negativa della loro intera esperienza formativa e la ritengono inutile, o peggio, dannosa. Come nota a margine, occorrerebbe riflettere sul fatto che alcuni ragazzi/e eccellenti (per risultati e valutazioni conseguiti) nei percorsi di istruzione formale, la pensano esattamente allo stesso modo riguardo alla loro esperienza nel sistema di istruzione. Altri credono di essere loro stessi “il problema”, per una serie di motivi diversamente combinati tra loro. Alcuni si annoiano e manifestano atteggiamenti fatalisti e rinunciatari: «Che palle, tanto tutta questa roba non serve a niente». Hanno ragione se il tempo speso, non per loro volontà, non ha restituito loro nulla (non importa che sia vero o no: conta ciò che sentono, avvertono, percepiscono; nessuno può mettere in dubbio le emozioni, sensazioni e convinzioni di un’altra persona circa le sue esperienze). Altri ancora ritengono, semplicemente, che non sia “roba” per loro, che non sono in grado di ricavarne alcunché, né possono farci nulla: si tratta di incompatibilità, di inadeguatezza e basta. Non sono pochi quelli che sono proprio convinti di non essere intelligenti (e fanno un’enorme confusione tra l’essere intelligenti e il possedere nozioni e conoscenze: qualcuno avrà istillato loro quest’assurda concezione di intelligenza, no?). Per alcuni sono cose che hanno un’utilità, ma non nel loro caso, in quanto si percepiscono appartenenti a un altro mondo. Pochissimi sono sereni rispetto all’esperienza di istruzione compiuta, anzi, incompiuta, visto che hanno interrotto la scuola secondaria di secondo grado, che pure la legge li obbliga a iniziare. Alcuni sapevano già che avrebbero interrotto l’esperienza scolastica, spesso sono loro i più sereni. Molti sono stati “aiutati” a smettere da conflitti, da incomprensioni, da un ambiente scolastico che non ha fatto nulla per loro, lasciandoli annaspare nella massa indistinta dei tanti che affollano le ultime due classi delle superiori (in seconda ci sono arrivati in pochi, e alcuni hanno appena terminato le scuole secondarie di primo grado, con permanenze di cinque anni anziché tre). Frasi come «Le ore sono di cinquanta minuti», «C’era da fare il programma», «Sono così tanti», «D’altronde non abbiamo i mezzi», «I colleghi remano contro», frasi che abbiamo sentito, magari detto, sono gli indizi che la «colpa» raramente sta da una parte sola, nel fallimento di una relazione educativa. E quando è davvero così, allora vuol dire che la «colpa» è solo dell’adulto. Spesso i retroterra familiari parlano di disagio economico, sociale, culturale. A volte, conoscendo le storie di questi ragazzi, pensi che sia un miracolo il solo fatto che siano ancora in piedi. Complessivamente avvalora quanto disse della scuola, con felice seppur terribile metafora, don Milani, e cioè che «è come un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
Non sono pochi, però, coloro che di fronte a un’occasione reale di apprendimento “diverso”, centrato su di loro, aprono le porte e fioriscono, come testimoniano le esperienze più felici nella formazione professionale. Se non si approfitta di tali aperture, consentendo di sperimentare il successo formativo, si compie un delitto.

Storia di un rovesciamento
Normalmente i drop-out sono definiti in negativo, attraverso ciò che non sanno, non fanno, non hanno avuto l’occasione di completare. In questa particolarissima situazione, tuttavia, si inserisce un rovesciamento. Sono proprio le sperimentazioni, i percorsi di recupero, le didattiche sperimentate con i drop-out a proporre un modello per il percorso classico di istruzione. Negli ultimi anni la produzione normativa comunitaria, nazionale e delle diverse Regioni, ha infatti insistito moltissimo sulle competenze. Questo spostamento di baricentro determina la “fine” dei “programmi” come stella polare dei processi di insegnamento per riproporre la centralità dell’apprendimento e dei soggetti. Insegnare per competenze significa ricordare che l’insegnamento non è un’operazione da “intellettuali”, ma un’azione che deve porsi a servizio dell’apprendimento, vero focus e centro di un sistema di istruzione e formazione. Nessun contenuto, nozione, conoscenza o programma può essere al centro: al centro ci stanno i ragazzi, le ragazze e i loro obiettivi di apprendimento declinati in termini di competenze da sviluppare. Il contributo fornito dai percorsi rivolti ai drop-out per consentire loro di sviluppare le competenze di base e le competenze di cittadinanza, in tempi eccessivamente contratti, ha permesso la ricerca, la sperimentazione e la verifica di didattiche e percorsi innovativi. Per una volta un rovesciamento che pare caricarsi anche di una felice ironia, i drop-out hanno molto da insegnarci.
Chi non teme questa utenza lavora in sua compagnia con enorme soddisfazione vedendo fiorire una nuova percezione di sé, in seguito al cambiamento delle pratiche didattiche, del vocabolario, delle modalità di valutazione (che debbono essere “descolarizzati”). Un ragazzo o una ragazza abituati a percepirsi come inadatti, inadeguati rispetto alle esperienze di apprendimento, quando sperimentano il successo formativo recuperano un’immagine migliore di sé, mobilitano le proprie risorse, crescono…
«Il commento generale di John sui suoi undici anni alla Holborn (dalle elementari alle superiori) si limitava quasi esclusivamente a un’unica frase generica. Sosteneva infatti che avrebbe saputo riprodurre la mappa del terreno circostante visto da ogni singola finestra dell’aula fin nei minimi dettagli grafici, ma che mai, nemmeno in un miliardo di anni, avrebbe saputo mettersi a spiegare che cosa succedeva nella classe intorno a lui.» (Tristan Egolf, Il signore della fattoria, Frassinelli, Milano, 2005).

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Federico Batini

Insegna Metodologia della ricerca educativa, dell’osservazione e della valutazione, Pedagogia sperimentale e Consulenza pedagogica all’Università degli Studi di Perugia. Ha fondato e dirige le associazioni Pratika e Nausika, da cui è data la LaAV. È autore Loescher. federicobatini.wordpress.com

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