Un’architettura del sistema di istruzione desueta

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Gentile Ministro Carrozza, mi permetto ormai l’uso di aggettivazioni confidenziali: l’abitudine a scriverle e la comune provenienza toscana mi danno una certa sensazione di familiarità, e quindi mi perdonerà la sfacciataggine. Concludo, per ora, il mio monologo, riprendendo oggi alcuni termini proposti dal collega Reali nei suoi contributi e che intersecano il complesso tema dell’architettura del nostro sistema di istruzione. Spero che almeno una minima parte dei suggerimenti e delle riflessioni scaturite da questa iniziativa abbiano raggiunto l’obiettivo e possano rendere il servizio con il quale sono state intese.

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Quattro anni: Reali chiedeva di impedire la riduzione di un anno delle scuole secondarie di secondo grado, sostenendo che tale misura sarebbe soltanto un modo per risparmiare sulla pelle degli studenti. Io vado oltre. La invito a ristrutturare il sistema secondo questa logica: assicurare a tutti gli utenti i servizi rivolti all’infanzia (sin dal nido), e dare a questi la medesima dignità degli altri. Sarebbe un passo essenziale. Nei nidi pubblici, in quelli del privato sociale e nelle scuole dell’infanzia c’è un patrimonio di professionalità che non abbiamo in nessun altro livello di istruzione. Sarebbe anzi auspicabile che gli insegnanti di tutti gli altri gradi, specie quelli che insegnano nei Licei di vecchia denominazione (i classici e gli scientifici, per intenderci) facessero un’esperienza di affiancamento con gli insegnanti di quei gradi e imparassero da loro come modificare la propria didattica. Prevediamo un inserimento all’istruzione primaria entro i 6 anni, con cinque anni di scolarità in cui non vi sia, in alcun modo, la volontà di “scolarizzare” i bambini, ma sia anzi prevista attività fisica quotidiana, e la didattica sia centrata sull’attivazione e sull’esperienza. Dewey può essere considerato superato ad altre latitudini forse, non da noi: la sua lezione, attualizzata, può essere ripresa e valorizzata. Costruiamo poi un percorso intermedio di cinque anni ulteriori con la secondaria di primo grado obbligatoria per tutti, seguendo anche qui la logica dell’attivazione e della valorizzazione dell’esperienza (nel duplice senso di vedere i ragazzi come portatori di esperienze significative e come risorse per il gruppo, portatori di conoscenze e competenze). Gli apprendimenti siano definiti in termini di competenze, secondo quanto già definito dal DM 139 del 22 agosto 2007, e favorendone l’attuazione reale in tutte le scuole. Fino a questo punto del percorso, che terminerebbe a sedici anni (ma con il termine di un ciclo e non con l’interruzione di un percorso come avviene attualmente) facciamo in modo non sia possibile fermare nessuno, ma soltanto praticare forme di valutazione formativa. Questo per rendere coscienti i ragazzi del punto del percorso che hanno raggiunto, degli apprendimenti conquistati e di quelli rispetto ai quali c’è ancora da lavorare, delle competenze sviluppate, dei punti di forza e dei limiti. Potrebbe seguire un biennio con indirizzi molto precisi, in cui proporre i contenuti specialistici tanto amati da gran parte della nostra classe insegnante della secondaria di secondo grado, consentendo così ai ragazzi di prepararsi a un eventuale inserimento lavorativo e/o di comprendere se l’indirizzo universitario coerente al percorso è davvero quello che fa per loro (o altrimenti cambiare progetto). Questo percorso dovrebbe concludersi quando ciascuno ha raggiunto tutte le competenze-obiettivo previste: in due anni, o in meno tempo per casi che siano in grado di dimostrare l’effettivo raggiungimento delle competenze citate, viceversa, se necessario, in due e mezzo, in tre, quattro… Terminati i due anni (a diciotto anni per chi ha avuto un cursus studiorum regolare) ci si iscriverebbe all’Università, che dovrebbe, anch’essa, rinnovarsi profondamente fornendo una migliore preparazione in termini di contenuti adeguati, conoscenze, abilità e competenze ai laureati, sin dalla triennale.
Riforma: Reali sostiene che non è possibile essere sottoposti a continue riforme e continui cambiamenti e comprendo la sua irritazione e frustrazione. Tuttavia credo sia necessario ridefinire, nel senso indicato sopra, il nostro sistema di istruzione; in seguito potremmo verificarne gli effetti mantenendolo intatto per cinque anni ed apportarvi i piccoli correttivi che si rendano necessari. Sono d’accordo con la sua proposta di incrementare le ore di italiano, purché richiedano anche la partecipazione attiva dei ragazzi, come ad esempio nella pratica della lettura ad alta voce delle opere – non certo alla filastrocca della biografia di qualche autore o, peggio, all’inerte spiegazione di interpretazioni critiche, fornite da illustri defunti, di un’epoca, di un movimento letterario, di una corrente di pensiero.
Sovraffollamento: Reali qui ha tutta la mia approvazione. C’è un solo rimedio se si vuole chiedere di lavorare non bene, ma decentemente con gruppi di 30 alunni: prevedere la presenza di un tutor di supporto al docente. E il problema, concordo con Reali anche qui, non sono certo le correzioni di prove e verifiche che aumentano, quanto il fatto che in un’ora, con trenta allievi e alcune formalità da sbrigare (rimangono spesso 40 minuti effettivi), non è possibile nemmeno gettare uno sguardo su tutti, figuriamoci dare spazio e valorizzarli. La situazione non è uguale ovunque, esistono classi di 34/35 allievi e classi di 7: siamo certi che al ragazzo o alla ragazza che avrebbe bisogno di un’adeguata attenzione di un adulto e si trova insieme a 34 colleghi della sua età abbiamo garantito il diritto allo studio?

Sponsor: in disaccordo con il collega Reali: sarei molto prudente rispetto all’intervento dei privati nelle scuole, anche se risulta evidente che le risorse mancano e servono. Per evitare influenze e ingerenze non si potrebbe far fare da filtro alle Regioni? Ovvero impedire che le erogazioni arrivino direttamente alla singola scuola, con il pericolo poi di una sorta di sudditanza o, nel tempo, di un potere ricattatorio dei privati nei confronti della scuola medesima. Imparare dagli errori degli altri non è mai una cattiva pratica, ripeterli mi sembra masochismo. Se proprio si deve favorire l’intervento dei privati per avere aule e attrezzature decenti, allora si consenta agli stessi di intervenire ma si impedisca, ope legis, il rapporto diretto scuola-sponsor.
Tagli: questa voce invece mi vede allineato al collega Reali. Basta! Basta con i tagli lineari, l’istruzione ne ha già sofferto a sufficienza. Si producano, al contrario, studi per la riallocazione delle risorse: si provi a verificare se è possibile, a saldo zero, risparmiare qualcosa per destinarlo alle attività specifiche della scuola. Non tagliamo, anzi, aggiungiamo qualcosa migliorando l’efficacia e l’efficienza di quanto speso. Introduciamo forme di incentivazione dei docenti che riescono a far ottenere ai propri studenti migliori risultati di apprendimento (dopo aver modificato le modalità con le quali viene misurata la scuola oggi, come recita l’autorevole lettera a lei indirizzata, stesa da Piero Lucisano e firmata da quasi tutti i professori e ricercatori di pedagogia sperimentale e di didattica italiani).
Perché non mettiamo l’istruzione, la formazione e l’orientamento al centro del rilancio del paese? Questo vuol dire pensare al futuro, questo vuol dire pensare ai giovani. Perché non pensiamo alle scuole come centri in cui l’apprendimento è possibile tutto il giorno, anche in orari differenti da quelli delle lezioni istituzionali? E se dobbiamo chiedere contributi alle famiglie, facciamolo per le attività in più: quelle volontarie, pomeridiane, aggiuntive, non per quelle istituzionali del mattino.

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Università: splendida l’idea del collega Reali di interscambi di docenti tra scuola e Università: coinvolgerei, come ho già detto in precedenza, anche i gradi inferiori, dai quali tutti noi abbiamo molto da imparare. Se ogni docente universitario si confrontasse con la didattica della scuola dell’infanzia, e se ogni insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado facesse lo stesso, credo che la nostra scuola ne ricaverebbe un guadagno tangibile.
La didattica all’Università, poi, ha bisogno di un intervento serio. A Lei, donna di accademica, non sfuggirà come, anche raffrontata all’istruzione di secondo grado, la didattica universitaria sia spesso inesistente. Conferenze al posto di lezioni quando va bene, lettura di quaderni o di slides quando va male. L’Università ha il dovere, a quel punto sì, di essere professionalizzante, di stimolare all’azione, di far sperimentare concretamente ai ragazzi quanto debbono apprendere.
Valutazione: Come giustamente osserva Reali vi sono in campo molteplici resistenze, ma è un tema che non può essere ignorato, per nessun motivo. Una valutazione non improvvisata e non centrata sul nozionismo, rispondente a criteri di scientificità adeguati, è l’unico modo per evidenziare e premiare il merito. I modelli e gli strumenti valutativi possono essere di tipo diverso, e certo sarebbe bene aprire un dibattito serio tra gli addetti ai lavori; tuttavia ritengo che la cosa centrale da valutare siano i risultati di apprendimento degli allievi. La specificità del mestiere di insegnante è questa… essere in grado di facilitare l’acquisizione di apprendimenti.

E con questo siamo giunti, per ora, a conclusione della nostra corrispondenza a senso unico… in attesa di un suo gentile riscontro, le porgo i miei più cordiali saluti.

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Federico Batini

Insegna Metodologia della ricerca educativa, dell’osservazione e della valutazione, Pedagogia sperimentale e Consulenza pedagogica all’Università degli Studi di Perugia. Ha fondato e dirige le associazioni Pratika e Nausika, da cui è data la LaAV. È autore Loescher. federicobatini.wordpress.com

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