Una difesa senza attacco

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Caro Professor Reali, Lei mi ha fatto l’onore, alcuni giorni fa, di dedicare a due mie righe un intero, dottissimo, articolo. Così dotto che ho avuto bisogno di tempo per leggerlo – e il tempo, si sa, è l’unico bene rimastoci in momenti di così grave crisi. Mi chiede come si possa mettere in dubbio il “valore culturale” delle lingue classiche, cosa che non era mia intenzione fare: piuttosto m’interessa porre un interrogativo sul valore formativo, o meglio, sull’efficacia della modalità stessa del loro insegnamento.

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Prima che mi risponda con un altro articolo contro l’efficienza provo a darle qualche coordinata essenziale su di me e sul mio punto di vista. Apprezzo il suo sforzo ma la mia centratura, il mio sguardo, non è sul valore culturale, rispetto al quale non ho alcun dubbio, ma sui risultati di apprendimento e su cosa li facilitano. La differenza sta tutta qui. Lei attribuisce alla scuola, come ha avuto modo di ripetere spesso, un valore eminentemente culturale (e mi piacerebbe sapere che cosa si intende per “culturale”), mentre io le attribuisco valore eminentemente formativo/educativo. Non mi interessa formare dei piccoli “intellettuali”, e trovo il termine davvero fuori luogo per dei pre-adolescenti e degli adolescenti che potrebbero immedesimarsi veramente nell’epiteto e agire di conseguenza (e visto come si sono comportati, in questi ultimi venti anni, gli intellettuali in Italia, direi che è forse opportuno non additargli l’esempio): mi interessa formare futuri cittadini.
Ho a suo tempo frequentato con profitto, successo e senza traumi un liceo classico (come quello in cui Lei, credo, insegna) e ho conseguito la prima laurea in Lettere (moderne, ma sostituendo gli esami complementari – che allora si potevano scegliere – con i fondamentali di lettere classiche) e… lo so, non ci crederà, il mio primo incarico annuale, al tempo ancora privo di abilitazione, fu proprio come insegnante di latino. Ho poi insegnato, di ruolo, materie letterarie nella secondaria di primo grado e infine, sempre di ruolo, italiano e storia nella secondaria di secondo grado, prima di passare a titolo definitivo all’Università. In tutti questi casi non ho beneficiato di ope legis ma ho vinto concorsi. Credo quindi di conoscere almeno un po’ il problema, e mi sono trovato, come lei, a dare ragione del perché si doveva fare quanto si faceva.
Con queste debite premesse, nelle quali forse sta la vera risposta, provo a ribattere alle sue argomentazioni, sapendo di fare un gioco retorico (alcune delle mie argomentazioni non mi convincono, ma le Sue mi convincono ancor meno).
Lei sostiene che occorre studiare il Latino perché sarebbe parte del nostro DNA culturale, in quanto lingua dei romani e lingua veicolare che avrebbe consentito di parlarsi a S. Ambrogio e S. Agostino (e a molti altri, certo). Le sue argomentazioni sul primo punto mostrano evidenti debolezze, e mi permetta una battuta (che poi tanto battuta non è): se dobbiamo studiare ciò che sta alla base della nostra cultura, insegniamo ai nostri alunni a fare l’orto: abbiamo una parentela più prossima con la civiltà contadina che con l’impero romano (non le sfuggirà il fatto che se la crisi economica dovesse protrarsi saper coltivare fagiolini risulterà estremamente più utile che saper tradurre Properzio, che pure adoro). Se una lingua è importante in quanto veicolare, be’, non avendo nessun S. Ambrogio con cui confrontarsi ai suoi alunni dovrebbe insegnare l’inglese. Non le sfuggirà che i sostenitori delle tre “I” usavano argomenti analoghi.
Il latino sarebbe fonte di apprendimento logico, in quanto il tradurre “situazioni e concetti di oltre duemila anni fa” nella lingua di oggi “contribuisce a sviluppare le capacità logiche”. Questa argomentazione resiste ai decenni. La usavano a metà degli anni ’80 i miei professori al liceo: né lei né loro però hanno saputo darmi una sola evidenza empirica o almeno un’argomentazione più robusta. Mi perdoni, ma anche la matematica avanzata, palesemente, sviluppa competenze logiche: perché non insegnarla sin dalle elementari?
Il Latino è la “sola reale occasione di studiare una lingua per se stessa” ed è “proprio questo che rafforza le capacità espressive dello studente liceale”. Non l’ha mai sfiorata il dubbio che sia un’argomentazione autogiustificante? Io non ci metterei la mano sul fuoco, ma anche ammettendo che gli studenti liceali abbiano capacità espressive migliori degli altri (e pur potendole citare dozzine di esempi che confutano questa tesi, il fatto che lei la sostenga con tanta sicurezza mi fa sospettare che lei abbia in realtà dati comparativi sull’efficacia comunicativa di tutti gli studenti italiani, ragione per cui sarò prudente), non potrebbe essere effetto della selezione in entrata e del modo in cui vengono valutati gli studenti? Si è mai letto un articolo o un libro sulla valutazione interculturale? In parole povere: non potrebbe darsi il caso che gli studenti dei licei abbiano, in partenza, competenze comunicative già maggiormente sviluppate prima di iniziare il Liceo? Posso assicurarle che tra i miei compagni di classe di allora, oggi adulti e con prole, chi non aveva in entrata competenze comunicative più che buone non è diventato un fenomeno per effetto dello studio del Latino. Conosco altresì persone con ottima capacità e precisione nell’argomentare che hanno effettuato studi di altro tipo.

Il Latino favorirebbe la “concentrazione, la precisione e il rigore” in quanto sono “la base di ogni buona traduzione”: anche in questo caso mi pare che il suo sia un dogma o un postulato, non un argomento. La concentrazione, la precisione e il rigore sono, in effetti, prodotti da qualsiasi attività professionale ben svolta… e anche da tutte le attività di manualità fine.
Il punto 5 è uno dei più divertenti: il diritto romano è il fondamento del diritto moderno (non ignorerà che la lingua del diritto in Oriente fu dal VII secolo il greco). Mi pare un’affermazione etnocentrica: credo sarebbe più corretto dire che ha esercitato un’influenza (i sistemi legislativi anglosassoni e quelli orientali hanno qualche parentela e qualche debito, non più). È la questione degli studenti di Giurisprudenza che arrancherebbero senza conoscere il Latino a essere, a mio avviso, davvero spassosa. Ha mai provato a verificare la fatica che fa uno studente di liceo classico a sostenere l’esame di Analisi 1? Insomma, vogliamo davvero intendere la secondaria di secondo grado come una mera preparazione all’Università? E coloro che smettono di studiare? Non contano, vero? Sospetto che il testo della Mastrocola le sia piaciuto molto.
Il Latino è stata la lingua delle scienze e quindi molte scienze hanno vocaboli che derivano da quella lingua…be’ con lo stesso criterio il francese è stata la lingua della memorialistica e della diplomazia per secoli…e  molte scienze oggi hanno numerosissimi vocaboli in inglese.
Troppo spesso, anche nelle argomentazioni successive, fa riferimento a una comunità che è una comunità di dotti (chi sapeva scrivere nei secoli successivi? chi parlava a chi?); dire che i nazionalismi meno nobili derivassero dal mancato uso del latino mi sembra, davvero, una boutade. Credevo infatti che i valori (democrazia, solidarietà, tolleranza) a cui lei fa riferimento fossero propri dell’illuminismo: scopro adesso che democrazia, solidarietà e tolleranza hanno radici nell’Impero romano che, detto per inciso, distingueva tra cittadini e non tra schiavi e liberi.
Si leggano pure, dunque, le opere (mai direi una parola contraria) con il testo a fronte e pure con qualche rudimento di Latino, magari declinato per competenze, come hanno brillantemente mostrato possibile miei allievi del TFA, ma a convincermi ci riprovi… abbia pazienza, sono un arido docente di metodologia della ricerca e dunque più che di dogmi e postulati ho bisogno di argomentazioni logiche e, se possibile, di dati verificabili.
Se fosse dimostrato che una didattica per competenze produce più apprendimento di una per contenuti e nozioni, lei da che parte starebbe?
Riguardo all’identità, infine: mi permetta di suggerire che oggi leggere alcune opere di autori africani, romeni, albanesi forse potrebbe aiutarci molto di più rispetto a nazionalismi, revanchismi della peggior specie… non credo che ribadire Roma caput mundi sia un contributo in questo senso.
Grazie per le tante occasioni che mi dà di riflettere e di precisare il mio pensiero, rispetto ai mostri sacri che evoca per la nostra piccola disputa. Auguro a lei, professor Reali, di essere degno di Marchesi: io a competere con Banfi nemmeno ci provo.

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Federico Batini

Insegna Metodologia della ricerca educativa, dell’osservazione e della valutazione, Pedagogia sperimentale e Consulenza pedagogica all’Università degli Studi di Perugia. Ha fondato e dirige le associazioni Pratika e Nausika, da cui è data la LaAV. È autore Loescher. federicobatini.wordpress.com

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