Insegnare italiano agli stranieri adulti

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Un’intervista a Daniela Aigotti, che da anni insegna italiano agli stranieri e opera anche nell’ambito di associazioni di volontariato come l’ASAI. Una testimonianza umana e personale, oltre che professionale.

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D: Che cos’è l’ASAI?
R: L’Associazione Animazione Interculturale è un’iniziativa del volontariato torinese, nata nel 1995, rivolta soprattutto agli stranieri. Ogni giorno si organizzano attività rivolte ai bambini, ai ragazzi e agli adulti. Promuoviamo iniziative interculturali nei quartieri, coinvolgendo anche i cittadini in azioni concrete, dirette all’integrazione e alla convivenza positiva. Facciamo molta attenzione all’adolescenza e alle seconde generazioni, attraverso il loro coinvolgimento in attività aggregative, formazione, gioco e sport. Teniamo corsi di italiano, organizziamo dopo-scuola. L’ASAI è anche sede ogni anno di “Estate ragazzi”. Poi c’è lo Sportello lavoro, i progetti contro la dispersione scolastica, i laboratori, gli spettacoli… I volontari sono decine e decine.
D: E lei che cosa fa?
R: Io sono all’ASAI da più di 16 anni, è diventata parte della mia vita. Mi sono sempre occupata di insegnare italiano a stranieri adulti. Ho scritto vari libri di esercizi che usiamo nelle classi, seguo i nuovi volontari con iniziative di formazione: non ci si può improvvisare solo con la buona volontà! Più passano gli anni, più vediamo che anche nel volontariato ci vuole attenzione alla professionalità. Bisogna prepararsi, formarsi.
D: Come sono le classi?
R: Le classi di adulti? Di vari livelli, ma soprattutto bassi: principianti assoluti, livelli A1 e A2. Molti analfabeti totali. Ogni anno si cerca anche di formare una classe più avanzata, più o meno B1-B2.
D: Il livello è molto cambiato nel tempo?
R: Se parliamo di livello di conoscenza dell’italiano, nell’insieme direi di no, perché la maggioranza degli allievi continua – anno dopo anno – a essere costituita da persone arrivate da poco tempo, quindi bisognose di cominciare da zero o poco più. Per ora non si è esaurita questa spinta di nuovi arrivi. Forse sono un po’ cambiati i livelli scolastici di partenza: da una parte, questi anni di grandi arrivi dall’Est europeo ci hanno portato molti allievi diplomati, o addirittura laureati, mentre in passato a scuola avevamo soprattutto magrebini di bassa scolarità. Dall’altra, sono aumentati gli analfabeti totali, sia a causa di arrivi da Paesi in guerra, sia per il gran numero di ricongiungimenti familiari: molte donne, specialmente non giovanissime, non sono mai andate a scuola.
D: E le sue classi, in particolare, come sono?
R: Nel corso degli anni ho avuto classi di tutti i tipi: l’età generalmente va dai 20 ai 35 anni, ma ci sono spesso allievi più maturi. Le provenienze sono sempre state molteplici: in passato ci sono state ondate di marocchini, poi di rumeni; adesso a volte prevalgono i latino-americani, a volte i bengalesi o gli africani. Ho provato a fare il conto: ho avuto allievi di 64 nazionalità diverse (ma forse avrò dimenticato qualcuno). È il mondo che passa a Torino, e all’ASAI!
Per alcuni anni ho anche avuto occasione di tenere corsi per sole donne: facendo italiano si parlava anche della famiglia, dei bambini, degli uomini, del matrimonio e di problemi ginecologici. Sono state esperienze molto interessanti, che ci univano molto.
D: Che corsi preferisce dal punto di vista del livello?
R: Preferirei tenerli tutti, se avessi sufficiente tempo libero a disposizione. Non posso dire di avere delle preferenze, perché ogni corso ha le sue peculiarità e le sue caratteristiche appassionanti. Certo, è una grande soddisfazione tenere un corso base nel quale gli allievi arrivano a settembre, senza dire una parola in italiano, e poi a maggio chiacchierano. Si vedono i progressi passo dopo passo, parola per parola, costruzione dopo costruzione, mentre la lingua si forma nella loro mente e sulle loro labbra.
D: Che cosa ha imparato facendo questa attività?
R: Ho imparato innanzitutto a non avere paura degli stranieri. Oggi forse sembra un po’ stupido dirlo. Eppure, quando ho iniziato – 16 anni fa – di stranieri non ne conoscevo; leggevo di loro sul giornale, li vedevo per strada, ma non avevo mai parlato con uno di loro. Ero diffidente, anche un po’ spaventata, in certe cose prevenuta. Il volontariato con gli stranieri non era così diffuso e comune come oggi. Com’è cambiata Torino in tre lustri! Quando ho iniziato, dovevo quasi giustificarmi con amici e conoscenti d’aver fatto questa scelta. Mi sembra incredibile, oggi, che qualcuno allora potesse dirmi: «Ma sei sicura? Non è mica pericoloso? Ma che gente è?». Ricordo addirittura una persona che, incontrandomi per strada dopo essere stata all’ASAI, non mi ha stretto la mano per timore che fossi sporca. Non penso proprio che oggi potrebbe capitare qualcosa del genere.
Comunque, ho imparato a parlare con gli stranieri, a considerarli persone come tutte le altre, a desiderare di fare amicizia; ho imparato a capirli, a sentirli parte di tutti noi. Ho imparato che fare l’insegnante (forse con gli stranieri ancor di più?) è un lavoro meraviglioso e coinvolgente; ho conosciuto persone straordinarie. Ho anche imparato che è inevitabile lasciarsi, che dopo aver percorso un tratto di strada insieme, non ci si vede più, se non con pochi di loro. Eppure si vorrebbe continuare ad avere notizie di tutti e non perdere nessuno. Mi mancano, quando non li vedo più, però sarebbe irreale continuare con tutti, oggi avrei una classe di centinaia di allievi! È naturale che sia così, bisogna imparare ad accettarlo.
Infine ho imparato, ma forse è la prima e più importante esperienza, che dedicarsi come volontari a insegnare l’italiano è l’obiettivo. E per arrivarci non bastano l’esperienza didattica, le capacità professionali, l’acquisizione di tecniche e i corsi di formazione. Bisogna anche metterci il “voler bene”. Mi accorgo che, più passano gli anni, più voglio bene ai miei allievi. Proprio nel senso letterale dell’espressione: voglio il loro bene, e quindi cerco il loro bene, cerco di lavorare con cura, coscienza, fantasia, metodo e allegria. Questo per l’italiano, perché sicuramente imparare la lingua è un bene per tutti loro. Ma voglio il loro bene in generale, desidero stiano bene, abbiano fortuna, che la vita dia loro speranze; cerco di aiutarli nel cammino, di far sentire una vicinanza, un calore, dei sorrisi. Cerco di ascoltarli e capirli il più possibile; mi rallegro dei loro giorni positivi, dei successi, e mi rattristo con loro delle difficoltà e dei tanti dispiaceri.
D: E che cosa ha insegnato?
R: Soprattutto a comunicare. Ho tentato sempre di immedesimarmi in tutte le innumerevoli situazioni di vita quotidiana (alle quali corrisponde una situazione linguistica), per aiutare gli allievi ad affrontarle. Ho cercato di far passare dappertutto tanto lessico e anche una buona dose di grammatica, fermo restando, però, che la grammatica non è l’obiettivo: sottostà a tutto, non può essere ignorata, ma va imparata parlando, non studiando. Ho cercato di insegnare loro ad ascoltarsi a vicenda, sentire l’opinione di tutti e valorizzarla.
D: Ha avuto qualche delusione?
R: Anni fa credevo che la sincerità e la semplicità che derivano da ciò che è razionale potessero sempre guidare i miei comportamenti in classe. Io sono molto cartesiana, dice mio marito. Poi ho visto che non sempre è possibile seguire queste linee di chiarezza, franchezza e schematicità, anche se si è in buona fede. Ricordo questo episodio: durante una lezione arrivarono domande di chiarimento su alcuni modi di dire degli italiani. Di lì si passò alle parolacce; mi chiesero se certe parole erano o no parolacce, ognuno aveva esempi di parole sentite, delle quali il significato non era evidente. Tengo a precisare che tutti erano assolutamente sinceri e in buona fede. Allora pensai di dare delle spiegazioni chiare, specificando come certe parti del corpo riferite alla sfera sessuale abbiano più di un nome: nomi scientifici, nomi correnti “neutri”, nomi correnti volgari. Gli allievi erano interessati e incuriositi, molti dicevano: «Oh, finalmente capisco!». Credetti quindi di aver fatto una bella lezione, di cui tutta la classe fosse contenta. Rimasi molto mortificata, invece, quando a fine lezione un ragazzo tunisino venne da me per rimproverarmi a tu per tu, per dirmi che certi discorsi una donna non li fa e che lo avevo deluso. Anch’io ero delusa. Però ho imparato a essere più prudente, a non credere che tutti possano apprezzare la semplicità e la tranquillità nell’esprimersi senza farsi problemi.

asai2D: C’è qualcosa che non rifarebbe?
R: Quello che ho fatto all’inizio della mia esperienza all’ASAI: iniziare le prime lezioni (o forse la prima, addirittura) insegnando gli articoli a persone praticamente mute, perché appena arrivate nel nostro Paese. Invece di affrontare prima di tutto i problemi comunicativi, di cercare di rompere il muro del silenzio, mi sono messa a fare grammatica, e persino un argomento ostico, solo perché le nostre grammatiche iniziano con l’articolo. Lo racconto sempre nei corsi di didattica dell’L2 agli insegnanti: che incredibile errore! Ma l’avevo fatto in buona fede, per inesperienza.
D: E una gratificazione?
R: Le gratificazioni sono continue, infinite, ma ne racconto due. La prima l’ho avuta quando un’allieva polacca mi ha detto: «Tu insegni a tutti, e a ciascuno». È stato il più bel complimento che abbia potuto ricevere come insegnante. E l’altra, quando un marocchino mi ha detto: «Dopo tanti anni che sono qui, tu sei la prima persona italiana che mi stringe la mano».
D: Un allievo che non dimenticherà?
R: Ce ne sono decine che non potrò dimenticare. Di ognuno ho un ricordo affettuoso. Non dimentico il marocchino Aissam, ragazzino dolce, espansivo, che desiderava sempre farmi dei regali. Era entusiasta della scuola e prendeva appunti accuratissimi. Aveva dei bei quaderni, che erano il suo orgoglio (e anche il mio). Aveva anche un quaderno segreto su cui scriveva poesie in arabo o in francese, cercando poi di tradurle in italiano; quando proprio capì che ci volevamo bene, mi fece leggere queste poesie delicate e struggenti sulla sua vita. Un giorno prestò i quaderni di appunti a una ragazza marocchina, che poi sparì. Aissam era disperato. Avevamo il telefono della ragazza, ma Aissam non volle telefonare, perché non era possibile che lui telefonasse a una ragazza sposata. Telefonai io, ma non ricordo se i quaderni tornarono indietro. Non dimentico la polacca Malgorzata, perdutamente triste per il fatto di trovarsi a Torino. Fu conquistata da un fiore e da un biglietto che diceva: «Ma sei proprio sicura di non avere amici qui?». Mi abbracciò e si affezionò a me in modo commovente. Non dimentico il marocchino Abdellatif, dallo sguardo serio, cupo, quasi torvo dietro gli occhiali da intellettuale. Eppure aveva un raro sorriso molto bello. Un giorno mi diede furtivamente una lettera, che ancora conservo. La lettera raccontava qualcosa di gravissimo e terminava con questa frase: «Questo lo sanno solo Allah e lei». Seguirono molti discorsi, ma anche colloqui fatti di una specie di silenziosa solidarietà; quello che per lui era importante, era di non essere giudicato. Spero che quella storia terribile sia finita bene. Mi sentivo onorata di essere stata avvicinata in qualche modo ad Allah…
E poi il giapponese Masaki, ragazzo intelligentissimo, pieno di tenacia e voglia di studiare. Incredibile la volta in cui cercai di spiegargli il cristianesimo: reagì in modo educato, curioso, sorridente, ma di sicuro non capì assolutamente nulla. Ormai sono dieci anni che mi scrive dal Giappone ed è la prima persona a cui ho pensato dopo lo tsunami. Non dimentico la cinese Maria, che decise di studiare l’italiano a 70 anni suonati e venne a scuola da me per tre anni. Non imparava niente, ma era di un’allegria contagiosa ed era fedele a ogni lezione. Era affettuosissima, si attaccava a me in tutto, si ingegnava di capire che cosa desiderassi. E neppure i giovanissimi bengalesi Masud e Ismail (zio e nipote, nonostante fossero coetanei), giunti in Italia dopo uno di quei viaggi di cui talvolta parlano i giornali, 18 mesi di peregrinazioni con ogni mezzo di trasporto, e soprattutto a piedi, per arrivare dal Bangladesh a Torino. Hanno trascorso tre anni di scuola con me, sempre gioiosi, rispettosi, affettuosi, allegri. E le incredibili cene a casa loro, con mio marito, a fine anno scolastico. Partendo da una lingua lontanissima dalla nostra, hanno imparato un brutto italiano ma pratico, solido, adatto alle loro esigenze. E poi, tanti altri: una schiera di persone che, pur attraversando dolori, paure, sofferenze, morte, venivano a scuola. La dolce algerina Lina, affranta per la morte del marito, a causa di un incidente sul lavoro, vergognosamente camuffato dai padroni; Frank, centroafricano, scappato da una rivoluzione di cui qui non si parla, al quale avevano ucciso 600 pecore, tutta la sua ricchezza; l’albanese Sose, silenziosa e dolente vedova, un figlio morto su un gommone, un altro paralizzato al CTO; la nigeriana Benedicta, che non ha mai voluto aprir bocca, schiacciata forse per sempre dal peso delle sue vicende; l’indiano Shamal, mite indù vittima di persecuzioni islamiste.
E anche altri che, invece, hanno lasciato una scia di ricordi allegri, divertenti: il nigeriano Jonathan, che arrivava sempre a scuola in ritardo perché doveva cucinare la peperonata per colazione; il bengalese Joy, che cantava con una delle più belle voci che abbia mai sentito; la somala Habiba, anziana analfabeta, che voleva imparare a scrivere in stampatello e non riusciva ad appoggiarsi al tavolo, impacciata da una sorprendente stratificazione di veli, manti e mantelli. Ricordo i dolci marocchini, gli antipasti peruviani, le spezie tunisine…
D: Progetti per il futuro?
R: Continuare!

Daniela Aigotti insegna italiano agli stranieri, tiene corsi di formazione didattica per gli insegnanti e scrive libri di esercizi di italiano L2.

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