Dieci libri italiani di didattica #1

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La diffusione dell’espressione “didattica a distanza” ha avuto l’effetto di moltiplicare a dismisura l’uso della parola “didattica” nel discorso pubblico sulla scuola. Per agevolare la conoscenza di un settore di studio nato e cresciuto nel corso del Novecento, inizio oggi una rassegna di dieci libri di didattica italiani che negli ultimi decenni hanno messo a disposizione di chi insegna strumenti concettuali e operativi fondamentali. Il primo volume della rassegna è “I modelli della didattica”, a cura di Massimo Baldacci, Carocci, Roma 2004.

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Nel 2004 Massimo Baldacci, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, è preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Urbino, e ha appena pubblicato per le edizioni Milella di Lecce un libro intitolato Il problematicismo. Dalla filosofia dell’educazione alla pedagogia come scienza, nel quale si propone, aderendo alla tradizione e alla scuola di origine bolognese del problematicismo pedagogico italiano, di individuare la specificità della pedagogia come disciplina autonoma, dal carattere scientifico, critico, antidogmatico, razionalista e, soprattutto, impegnato, ovvero tutt’altro che neutrale e asettico, ma ben consapevole della necessità di ancorare ogni scelta pedagogico-didattica a un preciso orizzonte di senso.

Nel libro I modelli della didattica, a cura di Massimo Baldacci, scritto in collaborazione con Maurizio Parente, Rosella Persi, Paola D’Ignazi e Berta Martini, lo stesso Baldacci ricorre al problematicismo pedagogico per affrontare il complesso problema dello studio delle tecniche didattiche nella società contemporanea, in un contesto in cui il bisogno di educazione e di istruzione è fondamentale per ogni individuo e, allo stesso tempo, le conoscenze sono soggette a rapida obsolescenza, riorganizzazione e rinnovamento. 

Si legge a pagina 14 della prima parte del libro, intitolata I modelli dell’insegnamento nell’epoca della società conoscitiva:

Per poter affrontare la sfida dell’istruzione, per poter soddisfare congiuntamente l’esigenza della qualità della formazione e quella dell’uguaglianza delle opportunità, la scuola deve garantire il tenore della prassi dell’insegnamento in senso scientifico e metodologico. La didattica è la disciplina potenzialmente in grado di offrire queste garanzie.

Purché sia chiaro che la didattica, intesa come scienza dell’insegnamento, non si esaurisce nell’«apparecchiare soluzioni metodologiche in vista di obiettivi o di finalità che le vengono consegnate da altri ambiti di sapere o da altre sedi decisionali».Come sostenuto da Bruno Ciari nel suo Nuove tecniche didattiche (un libro del 1961 oggi ripubblicato dalle edizioni dell’Asino, che sarà oggetto di uno dei prossimi articoli di questa serie), i valori e i significati sono immanenti alle tecniche, che ne rappresentano la realizzazione concreta:nessuna tecnica didattica è neutra, dunque, né può essere compresa separandola dal suo fine educativo, dalla natura dei suoi destinatari e dal carattere del processo di apprendimento.
Nessuna tecnica didattica è neutra, né può essere compresa separandola dal suo fine educativo, dalla natura dei suoi destinatari e dal carattere del processo di apprendimento.
Padroneggiare una tecnica, in questo senso, non può prescindere dal saperla collocare nel contesto culturale, dal saperne cogliere lo scopo, dal saper leggere la visione del mondo che l’ha prodotta e che essa stessa contribuisce a costruire.

Allo scopo dichiarato di «mantenere intimamente connesse la dimensione delle tecniche educative e quella dei fini (dei valori, dei significati ecc.)», Baldacci prosegue la sua argomentazione proponendo di sviluppare un discorso sulla didattica articolato per modelli: strutture invarianti, schemi concettuali secondo cui – sono parole del pedagogista Giovanni Maria Bertin, caposcuola del problematicismo pedagogico – «possono essere connessi e ordinati i vari aspetti della vita educativa in rapporto a un principio teleologico che ne assicuri coerenza e organicità» (Giovanni M. Bertin, Educazione alla ragione, Armando, Roma 1968).
Individuare dei modelli consentirebbe dunque di prendere atto della complessità, dell’eterogeneità e della molteplicità delle tecniche didattiche.Individuare dei modelli – siano essi storici (il modello educativo cattolico, il socialista, il modello didattico comportamentista o quello strutturalista…) o ideali, generati cioè da una speculazione teoretica – consentirebbe dunque di prendere atto della complessità, dell’eterogeneità e della molteplicità delle tecniche didattiche, della loro applicazione e dei loro fini, e di cogliere così, scrive ancora Baldacci, «le eventuali unilateralità telelologiche, i settarismi ideologici, le parzialità metodologiche, da cui ciascuna di esse può essere affetta, così da garantire un approccio critico e problematico alla didattica» (p. 20).

Conoscere i modelli della didattica, orientarsi al loro interno sapendo osservare allo stesso tempo le pratiche didattiche e le relative teorie di Conoscere i modelli della didattica, orientarsi al loro interno è dunque inevitabile se si vuole praticare un insegnamento antidogmatico e razionalista, critico e scientifico.riferimento è dunque inevitabile se si vuole praticare un insegnamento antidogmatico e razionalista, critico e scientifico, capace di capire la direzione di ogni pratica educativa – da dove viene e dove vuole condurre l’apprendente – e, anche, di interpretare ogni novità collocandola in una prospettiva storica e teleologica.

Al fine di dotare educatori e insegnanti di uno strumento concettuale di questo tipo, Baldacci dedica le successive trenta pagine del suo denso saggio alla costruzione di uno strumento in grado di classificare i modelli didattici sulla base di alcune strutture invarianti dell’esperienza educativa.

Il primo passo consiste nel prendere in esame la «trama delle antinomie» che caratterizzano l’esperienza dell’insegnamento. Le antinomie – concetti tra loro contrapposti e in rapporto reciprocamente dialettico – consentono infatti, secondo l’approccio problematicista, di mantenere una visione aperta dell’esperienza pedagogica, che non può risolversi in un nessuno dei poli contrapposti, pur mantenendo intatta l’ambizione di trovare una sintesi, rimanendo in costante movimento tra gli estremi.
Le antimomie fondamentali della tradizione problematicista vengono prese in esame da Baldacci al fine di mostrare la ricchezza e la pluralità dei punti di vista da cui può essere formalizzata la pratica educativa.Soggetto/oggetto, egocentrismo/eterocentrismo, processo/prodotto, essenza/esistenza, casualità/necessità: le antimomie fondamentali della tradizione problematicista vengono prese in esame da Baldacci al fine di mostrare la ricchezza e la pluralità dei punti di vista da cui può essere formalizzata la pratica educativa e, inoltre, per poter selezionare due coppie di concetti antinomici funzionali alla costruzione di una matrice combinatoria.

Premesso che non sono date antinomie fondamentali, che occupano una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto alle altre, ma che è solo per motivi pragmatici quali la convenienza ed efficacia che occorre sceglierne alcune da cui cominciare un’indagine che non pretende di essere esaustiva, Baldacci individua due opposizioni binarie, tra soggetto in formazione e oggetto di apprendimento, e tra prodotto formativo e processo formativo, grazie alle quali è possibile descrivere quella che potremmo chiamare la «situazione didattica tipica»: «un processo d’interazione di un soggetto e un oggetto culturale, che dà luogo a un esito d’apprendimento (più o meno adeguato)» (p. 26). 

Collocando i concetti antinomici in uno schema quadripartito (soggetto/oggetto culturale lungo l’asse orizzontale, processo/prodotto lungo l’asse verticale), Baldacci elabora quindi una vera e propria tavola dei modelli didattici, una struttura di classificazione incrociata in cui possono essere rappresentati quattro modelli ideali o, anche, altrettanti diversi percorsi formativi o curricoli, da intendersi, senza pretese ontologiche, come «modelli attivamente costruiti per rendere intellegibile un certo campo di esperienza» (p. 28), aperti a essere rettificati e abbandonati, il cui valore è dunque meramente convenzionale e operativo:

Tale struttura intende valere unicamente in senso metodologico, come schema convenzionale di sistemazione della concreta esperienza formativa secondo una fenomenologia di modelli ideali dell’insegnamento, colti a partire da un motivo teleologico assegnato loro come “tipico”.

Veniamo dunque ai quattro modelli, descritti prima dallo stesso Baldacci nei loro caratteri fondamentali e poi discussi approfonditamente in altrettanti capitoli dagli altri quattro autori.
Per ciascuno di essi – e questo è uno dei motivi che rendono indispensabile questo libro a chi voglia studiare da insegnante – è possibile individuare specifiche pratiche di progettazione e di realizzazione dell’insegnamento, che possono così essere classificate e, soprattutto, comparate e interpretate alla luce della loro finalità e dei modelli storici in cui sono state concepite.

Il modello didattico centrato sull’acquisizione delle competenze di base – collocato all’incrocio tra dominanza sul prodotto e dominanza sull’oggetto– è caratteristico della scuola dell’obbligo dei paesi democratici, si fonda su un’intenzione sociale e, in linea di principio, si oppone a una concezione elitaria della formazione. Il suo scopo è dare a tutti i cittadini la capacità d’uso di competenze disciplinari attinenti alla sfera dell’alfabetizzazione logico-matematica e linguistico-comunicativa.
È il modello dominante, quello in cui siamo immersi, spesso senza accorgercene. In estrema sintesi, chi insegna seguendo principalmente questo modello sa già prima di cominciare quali sono i risultati da raggiungere per tutti gli alunni; risultati che sono strettamente collegati alla disciplina di insegnamento e alle conoscenze e le capacità che ad essa fanno esclusivo riferimento.

A seconda di come lo interpretiamo, il modello può dare esiti radicalmente diversi.
Per chi crede che gli individui abbiano al loro interno dei «limiti di educabilità» (p. 32), e che, quindi, non tutti siano capaci di raggiungere i risultati inerenti a quel determinato campo del sapere – ad esempio la lingua italiana – il modello si traduce in un insegnamento estemporaneo e impostato su una didattica trasmissiva.
Per chi, al contrario, ritiene che i limiti di educabilità siano esterni all’individuo, il modello prende le forme più complesse della didattica individualizzata, ovvero di una didattica che cerca di conseguire gli stessi risultati con strumenti diversi a seconda delle situazioni individuali e dei personali stili di apprendimento.
L’obiettivo diventa quello di raggiungere una piena adeguatezza delle competenze di base e la loro piena padronanza. Da questo modello discendono la programmazione individualizzata, il mastery learning e il lavoro per unità didattiche, pratiche ormai entrate nell’uso scolastico attraverso le pratiche di programmazione e, soprattutto, attraverso i libri di testo, che hanno introiettato strumenti didattici afferenti a questo modello.

Per immaginare il funzionamento di questo modello didattico è utile pensare all’insegnamento della lingua straniera o della lingua italiana come seconda lingua: si comincia da una rilevazione dei livelli iniziali attraverso dei questionari a risposta chiusa e, eventualmente, dei colloqui individuali o delle simulazioni; poi si suddividono gli alunni in livelli, in maniera che ciascuno possa conseguire il risultato dell’accesso al livello successivo. L’insegnamento avviene attraverso lezioni frontali e esercitazioni, i risultati vengono rilevati attraverso questionari, simulazioni e prove che normalmente sono già stabiliti, poiché già stabiliti sono gli obiettivi.
Chi non raggiunge il livello (il risultato) è invitato a recuperare, ovvero a ripetere una parte del corso o a lavorare da solo fino al conseguimento del risultato. Fanno parte di questo modello, dunque, i concetti di ‘recupero’ e di ‘debito scolastico’, che hanno senso solo se si lavora allo scopo di far raggiungere a tutti gli apprendenti i medesimi obiettivi nello stesso arco di tempo.

L’altro modello didattico dominante nella scuola italiana, soprattutto a partire dalla secondaria di secondo grado, è quello prevalentemente centrato sull’arricchimento culturale, nel quale «si mira prevalentemente a promuovere un processo di appropriazione interiore di contenuti culturali dotati di elevato valore intrinseco, che determinano l’arricchimento spirituale del soggetto».
È il modello gentiliano, fondato sull’utilizzo di un ristretto numero di discipline (oggetti culturali) che le persone devono apprendere con fatica, allo scopo di crescere culturalmente, di arricchirsi, di dotarsi di strumenti cognitivi e culturali per affrontare la vita adulta e, infine, diventare maturi.
Come nel modello precedente, le discipline hanno un valore fondamentale e rimangono assolutamente centrali in quanto oggetto di apprendimento – con l’avvertenza che in questo caso esse sono considerate portatrici di valori prima che di competenze. È la persona che, grazie all’interiorizzazione di significati e valori che sono  propri di alcuni oggetti culturali (un canone di opere letterarie, ad esempio), si arricchisce e sviluppa.
Fanno parte di questo modello pratiche didattiche come la lezione “socratica”, centrata sul dialogo e – si potrebbe dire oggi – sul conflitto delle interpretazioni, e il tema, attraverso il quale l’alunno può dimostrare chi è diventato – e non tanto come compone.

Questo modello meriterebbe di essere ampiamente discusso, perché, ancor più del precedente, è alle fondamenta della formazione e dell’ideologia stessa di gran parte degli insegnanti, soprattutto di materie letterarie. Esso ha radici idealiste ed è profondamente radicato nella nostra cultura liceale e, più in generale, nella tradizione educativa occidentale, dal carattere elitario (destinato alle classi dirigenti e, quindi, alla perpetuazione di valori e significati) e antiutilitaristico. I rischi connessi all’adozione del modello dell’arricchimento culturale sono principalmente due: elitarismo culturale e snobismo; essenzialismo, ovvero interpretazione astorica dei valori umani. Ad essi si aggiunga il rischio di inefficacia qualora la cultura di riferimento non sappia dialogare con la cultura di partenza degli alunni. Infatti, perché questo modello sia davvero capace di agire sul processo di crescita, deve trovare dei punti di contatto tra la cultura dei discenti e quella dei docenti.

Il modello dei talenti personali ha il fine fondamentale di «promuovere in ogni persona lo sviluppo di una forma di eccellenza cognitiva che dia corpo alle sue peculiarità individuali» (p. 53). Esso mette al centro il soggetto che apprende per raggiungere un determinato risultato (prodotto), da individuare sulla base dei talenti e delle diverse forme di intelligenza dello scolaro.
Si differenzia dal modello precedente perché non intende sviluppare, in generale, le facoltà mentali, ma intende concentrarsi su specifiche abilità. Si distingue dal modello delle competenze di base per la centralità del soggetto e delle sue intelligenze o formae mentis, che devono essere sviluppate non per raggiungere in modo individualizzato i risultati che tutti devono raggiungere, ma per conseguire, ciascuno in base alle proprie specifiche caratteristiche, un livello di eccellenza rispetto alla maggior parte delle persone.
Storicamente è applicato nelle diverse forme di didattica personalizzata – apprendistato culturale, laboratori opzionali – soprattutto nel contesto delle “educazioni”.

In una posizione diametralmente opposta al modello delle competenze di base si situa il modello centrato sullo sviluppo dei processi cognitivi superiori, nel cui ambito «si mira prevalentemente a sollecitare la messa in atto dei processi cognitivi superiori dello scolaro, a stimolare lo sviluppo delle sue capacità mentali più elevate» (p. 33).
È la posizione di chi rifiuta decisamente ogni nozionismo e, abbandonando ogni attenzione per l’oggetto di apprendimento (la cultura, la disciplina), si focalizza sul processo di apprendimento (la metacognizione) del soggetto, che deve essere equipaggiato delle capacità necessarie a produrre cultura, elaborando nuovo sapere.
Si tratta di una posizione che, afferma Baldacci, trova il suo corrispettivo storico in alcune concezioni dell’attivismo pedagogico, che si pone in netta contrapposizione a un insegnamento che privilegi la trasmissione di contenuti e, soprattutto, alla memorizzazione di conoscenze.

Per ciascuno di questi modelli viene poi fornita, in ciascuno dei quattro capitoli che seguono, una descrizione dettagliata dei fondamenti teorici e delle dimensioni operative (pratiche di programmazione e di insegnamento), seguita dai necessari riferimenti bibliografici, componendo così un quadro sistematico, una fenomenologia dei modelli didattici rigorosa e antidogmatica, utile a gli insegnanti che vogliano iniziare un percorso di riflessione sulle proprie pratiche e sui modelli impliciti a cui ricorrono quotidianamente, e anche agli aspiranti insegnanti che vogliano acquisire gli anticorpi necessari a orientarsi nel mercato delle pratiche didattiche.


P.S. Da molti anni ricorro a questa matrice di Baldacci e alla relativa fenomenologia dei modelli e delle pratiche didattiche nei corsi di formazione che tengo a docenti delle scuole di ogni ordine e grado. È uno strumento concettuale utile a rivelare la sostanziale inconsapevolezza dei modelli didattici, acquisiti prima attraverso l’esperienza di studenti e poi con l’insegnamento.
Una delle prime attività che propongo ai miei allievi consiste nel collocare nella matrice le tecniche didattiche che conoscono, cercando di capire se sono più o meno focalizzate sul soggetto o sull’oggetto culturale, su processo o sul prodotto dell’apprendimento.
Ne emerge solitamente un forte sbilanciamento verso l’oggetto culturale, ovvero su una didattica culturacentrica, e, anche, verso il prodotto.
Il mio compito, allora, è cercare di capire quali sono le forze che spingono verso quel quadrante, che non è scelto consapevolmente ma che evidentemente esercita una qualche attrattiva. Una volta analizzate le possibili cause – tra cui spiccano l’economicità degli strumenti e dei materiali didattici, facilmente standardizzabili, e l’alta competitività tra gli studenti, non si capisce se originaria o provocata dagli stessi strumenti – cerco di insistere su due punti: l’impossibile neutralità delle pratiche, che sono sempre riconducibili a finalità e valori storicamente dati, e la necessità di sapere sempre dove siamo, soprattutto per evitare un uso incongruente e dissonante dei dispositivi di programmazione, di insegnamento e di valutazione, che devono essere tra loro coerenti e pertinenti (e non, come spesso facciamo, presi un po’ a caso da vari modelli).

Dieci libri italiani di didattica #2

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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