Il sogno di Greta

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Come sempre, sono le persone a fare la differenza. Nel caso dell’ambiente – ce lo insegna la giovane attivista svedese – chiamiamo in causa tutti quelli che vanno a scuola, dagli studenti ai dirigenti: ciascuno deve fare la sua parte. Dalla sezione Scuola dell’ultimo numero de «La ricerca», “Pianeta Scuola”.
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© Donata Cucchi, Wasteland, Namibia 2009: «Perspective», dal progetto MariAperti.

Il sogno di Greta è che non ci si ritrovi mai più costretti a scioperare affinché la scuola si dedichi all’educazione ambientale. Il sogno di Greta, e dei milioni di studenti che hanno manifestato venerdì 15 marzo, è che la scuola sia il luogo dove si impara a unire i saperi per diventare cittadini attivi, critici e propositivi ed esser capaci, di fronte alle magagne, di rimboccarsi le maniche per cambiare dove serve. Un cambiamento che parta dalle fonti e dai dati (il lavoro degli scienziati), che passi dal confronto e che si possa appoggiare all’esperienza di chi è più grande e quindi capace di mitigare le comprensibili ingenuità di un movimento studentesco con un po’ di filosofia e di visione storica.

Io ho partecipato alla manifestazione di Torino, con momento finale in piazza Castello, dove almeno ventimila giovani hanno ascoltato le parole del metereologo Luca Mercalli che ha richiamato l’autorevolezza delle istanze («documentatevi per bene e alleatevi con la scienza, studiate prima di fare proclami») e auspicato che gli insegnanti colgano questo momento e tutta l’energia che ne è scaturita per avviare concrete attività di didattica ed educazione ambientale.

Il 5 dicembre scorso è stato firmato un protocollo d’intesa tra MIUR (ministro Marco Bussetti) e ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (ministro Sergio Costa) per «elaborare un Piano nazionale per l’Educazione ambientale nelle scuole italiane di ogni ordine e grado per sensibilizzare bambini e ragazzi, fin da giovanissimi, su temi come la sostenibilità ambientale e la qualità dello sviluppo. In un’ottica di cittadinanza attiva». Con l’intento, si legge nel documento MIUR, di rendere strutturali i percorsi di educazione ambientale nelle scuole. Stanziando da subito le prime risorse necessarie, 1,3 milioni di euro destinati alle istituzioni scolastiche.

Tra le azioni previste, percorsi di educazione ambientale per gli studenti, progetti e attività a supporto delle iniziative autonome delle scuole, programmi di formazione e aggiornamento per docenti e ATA. Saranno favoriti interventi per la qualificazione degli spazi educativi e degli edifici scolastici, nel rispetto della sostenibilità ambientale e di una migliore efficienza energetica. Saranno promosse azioni e iniziative che favoriscano lo sviluppo di curricula e di esperienze scuola-lavoro nel settore della green economy. Nonché esperienze didattiche sul campo e viaggi d’istruzione in contesti naturali, quali le aree protette italiane e le aree di interesse naturalistico. Già in passato il MIUR aveva varato documenti simili, che avevano innescato qualcosa, ma troppo poco.

L’elemento imprescindibile per l’efficacia di un’attività di educazione ambientale è FARE. Solo le parole, solo le pagine di un libro, solo qualche video o documentario visto in classe sulla LIM, solo l’incontro con l’esperto o il ricercatore che ti racconta il suo lavoro… non bastano. Sono momenti utili per avvicinarsi a un tema, per ragionare in modo più trasversale e interdisciplinare, ma troppe volte sono una foglia di fico, avallata anche dalla strutturazione per materie. La scienza che studia il climate change oltre a fisica, chimica, biologia, botanica, geologia, zoologia, ormai raduna sotto lo stesso ombrello anche statistica, intelligenza artificiale, sociologia, economia, antropologia, giurisprudenza… I programmi ministeriali che continuano a proporre ai ragazzi percorsi rigidamente separati sono di fatto delle gabbie. Bastoni fra le ruote a chi vuole impostare attività a scuola davvero interdisciplinari e comfort-zone perfettamente legittime per chi è pigro e incapace di evolvere il proprio modo di insegnare rispetto alle necessità dell’oggi.

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© Donata Cucchi, da qualche parte tra Walvis Bay e Sandwich Harbour, Namibia 2009: «No man’s land», dal progetto MariAperti.

Mi chiedo: come possono le dichiarazioni del protocollo d’intesa diventare poi attività didattiche vere ed efficaci se non con un po’ di flessibilità? I momenti di formazione per docenti e ATA annunciati sapranno innescare anche dinamiche di team building? Dirigenti e DSGA sapranno interpretare il senso di questo protocollo (ma soprattutto il senso della manifestazione del 15 marzo!) e difendere l’obiettivo educativo mettendolo al riparo dall’intrusione di alcune regole iperprotettive e ipercautelative e dalla burocrazia?
Sono oltre 25 anni che progetto e realizzo attività hands-on di divulgazione scientifica per bambini e ragazzi. Quando vengono al museo, in uno science center, a un evento di piazza o partecipano alle attività di gite e camp di ToScienceCamp tutto avviene in piena sicurezza, ma sono io che gestisco i piccoli rischi e mi prendo le responsabilità. Un’attività di laboratorio portata dentro la scuola a volte viene bloccata: impossibile accendere un fornellino a gas in classe, maneggiare alcuni reagenti per toccare con mano la chimica, far salire i ragazzi su una scala a controllare (o cambiare) una lampadina o sul tetto terrazzato per studiarne l’esposizione solare in vista di un pannello fotovoltaico.
L’interpretazione alla lettera delle normative di sicurezza (e la mancanza di un laboratorio di scienze attrezzato e autorizzato) diventa il perfetto alibi per non fare. Le regole vanno lette e interpretate cum grano salis e in certi casi vanno cambiate, perché il fare con le proprie mani, il mettersi in gioco è lo spartiacque tra un’attività di educazione ambientale che funziona davvero e una che si limita a fornire una spruzzata di informazioni senza ordine.
Non si impara ad andare in bicicletta o ad arrampicarsi su un albero senza mettere in conto di sbucciarsi le ginocchia. Le attività di educazione ambientale hanno bisogno di esperienzialità, di fare e sbagliare e tentare ancora. Se Dirigenti e DSGA non mettono al primo posto l’obiettivo didattico, il modo di tarpare le ali a un progetto ci sarà sempre.

E serve anche la comprensione e la disponibilità del personale ATA. Un paio di anni fa, in una scuola media, facendo un’attività su come illuminazione efficiente significasse automaticamente risparmio energetico e miglioramento della luce in classe, avevo in mente di smontare un portalampade a soffitto e di installare a più riprese lampade diverse e di misurare l’effetto con un luxmetro e un wattmetro (tutto materiale ovviamente portato da me). Sono stato pesantemente redarguito dal bidello in capo perché non avevo l’autorizzazione a smontare un portalampade, perché alcune cose le fa solo il personale ATA, e perché non posso installare apparecchiature elettriche non autorizzate dal tecnico del Comune (una lampadina LED!?!). In un altro caso, un lavoro lungo un anno sulla raccolta differenziata classe per classe (fatta dai ragazzi!) si è affossato perché il personale ATA non avrebbe avuto in mansionario il compito di portare i sacchi con lattine, plastica e carta separati al primo cassonetto utile (tre isolati fuori scuola) e il dirigente non se la sentiva di insistere per «non rovinare i rapporti con i sindacati».

Greta Thunberg, nel suo discorso alla COP24 di Katowice (dicembre 2018), dice chiaramente agli adulti: da decenni state proponendo concetti sbagliati di sviluppo economico, ne ignorate le conseguenze, avete paura di perdere consenso e lasciate che l’effetto dei comportamenti di routine, sprezzanti verso l’ambiente, ricadano sulla vita dei vostri figli e nipoti. Parole appropriate da rivolgere anche a chi, in piccolo, trova comodo rifugiarsi dietro motivazioni di convenienza per non dare spazio alle attività di educazione ambientale.

Se queste sono le difficoltà oggettive da tenere in conto quando si progetta un’attività di educazione ambientale, è però vero che in decine di occasioni la cooperazione tra insegnanti e dirigenti, il ruolo proattivo nei DSGA (nel cercare progetti PON o rispondere alle call delle fondazioni bancarie) e l’entusiasmo di molti ATA hanno offerto ai ragazzi esperienze davvero uniche che hanno lasciato il segno e cambiato le cose. Come sempre, sono le persone che possono fare la differenza. Ecco una carrellata di esempi.

Diminuzione dell’uso delle plastiche monouso

In una scuola media, organizziamo con due classi un percorso di conoscenza del mondo delle plastiche (a cavallo fra tecnologia e scienze), analizziamo il fenomeno dell’inquinamento dei mari dalle plastiche, e visitiamo un centro di raccolta e smistamento delle plastiche per l’avvio al recupero di energia o al recupero di materia; l’attività si conclude con un science camp (i tre giorni della gita di fine anno) in una struttura vicina al mare, dove (collegandosi a due progetti europei SeaCleaner, con il CNR, e SPlasH, con ERI onlus e Università di Genova) i ragazzi hanno vissuto passo passo le attività di analisi quantitativa e qualitativa che i ricercatori conducono per stabilire i livelli di inquinamento da microplastiche in mare e in spiaggia. Hanno raccolto e pulito un bel tratto di spiaggia e, tornati a scuola, hanno proposto che a mensa non si usassero più i piatti di plastica. Ovviamente, per mille motivi, è stato detto che era “impossibile”, e come risposta una buona parte degli studenti ha cominciato a mettersi in fila con un piatto di plastica da campeggio (plastica quasi eterna) e accettato di ricevere le porzioni di cibo solo sul proprio piatto. A volte il cambiamento passa anche attraverso un gesto di garbata e ferma disubbidienza civile.

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© Donata Cucchi, Skeleton Coast, Namibia 2009: «Rare tracce», dal progetto MariAperti.

Water manager

Attività nata nel 2010-2011 (ai tempi del referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica) che andrebbe riproposta stabilmente a ogni inizio ciclo (terzo anno di scuola primaria, primo anno di secondaria di primo grado, primo e terzo anno di secondaria di secondo grado). Con l’acquedotto del territorio si passano in rassegna le caratteristiche che deve avere l’acqua in Italia prima di esser distribuita (una sessantina di controlli diversi: abbiamo le acque potabili più controllate d’Europa), e si esaminano anche i consumi medi giornalieri di ogni cittadino, per invitare infine tutti in classe a scegliere una borraccia di alluminio e non la solita bottiglietta di plastica del distributore automatico.

Sempre sul tema acqua come risorsa naturale da difendere, in questi due anni è stato particolarmente apprezzato lo spettacolo Acqua in bocca… è un elemento prezioso, progettato e allestito da “La Fabbrica dei Suoni” di Cuneo nell’ambito del Progetto Diderot (Fondazione CRT): 25 brani del repertorio classico, tutti ispirati all’acqua, riarrangiati in 7 medley ed eseguiti in diretta in aula magna da un quartetto (pianoforte, oboe, corno e fagotto) mentre una sand-artist aiuta l’ascolto con delle immagini live. Tra un medley e l’altro, 2-3 minuti di pillole di didattica sull’acqua, a cavallo tra le informazioni scientifiche (piovosità media e classifica degli anni siccitosi) e indicazioni di buone pratiche (water foot print e abusi dell’acqua in bottiglia).

Riduzione dei rifiuti, economia circolare e gamification

Il tema dell’interdisciplinarietà appena affrontato è stato al centro di uno spettacolo ideato dal sottoscritto con Elisa Palazzi (climatologa del CNR, autrice dell’articolo a pagina 6) e Eugenio Cesaro (frontman del gruppo indie pop “Eugenio in Via di Gioia”), con la regia di CentroScienza, e sponsorizzato da EduIren e Amiat Torino, per la Settimana Europea della Riduzione dei Rifiuti (novembre 2018). Milletrecento bambini riuniti al teatro “Colosseo” di Torino per una conferenza-spettacolo dedicata a capire il tema e scegliere gesti concreti per ridurre imballaggi e altri materiali superflui.

La stessa EduIren (come quasi tutte le ex municipalizzate che si occupano di acqua, elettricità, raccolta rifiuti, o come le piccole grandi aziende di servizi energetici) ha in catalogo molti spettacoli teatrali per le scuole di ogni genere, perché la teatralizzazione come preludio o conclusione di un percorso didattico è sempre efficace, anche al tempo degli smartphone.

Che non vanno dimenticati o snobbati, perché le tecnologie sono lo scenario quotidiano. L’unione fra nuove tecnologie e il buon vecchio “imparare giocando” ha dato origine a numerose possibilità di avvicinarsi alle tematiche ambientali, attraverso giochi online o contenuti da scaricare sulla LIM: è la gamification, ultima tendenza dell’edutainment scientifico che accompagna i ragazzi – attraverso giochi-quiz, giochi di logica, giochi di ruolo e app di ogni genere – a esplorare e appassionarsi di quegli argomenti che poi vengono compresi meglio attraverso la lezione frontale dell’insegnante o la testimonianza dell’esperto invitato in classe.

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© Donata Cucchi, Namib desert, Namibia 2009: «L’aura», dal progetto MariAperti.

Campi e gite scolastiche

È facile, per un insegnante, approfittare ogni anno scolastico degli eventi che si susseguono in occasione delle numerose giornate mondiali dedicate alle questioni ambientali, delle attività offerte da
stakeholder locali, e partecipare a progetti PON sull’ambiente o progettare attraverso le cooperative e le associazioni che si occupano di divulgazione scientifica e di ambiente (in primis parchi e aree naturali). Si tratta spesso di attività one-shot o di piccoli cicli di lezioni/incontri/attività da qualche ora alla volta, che si inseriscono nella normale programmazione scolastica. Se sono ben programmate, queste esperienze hanno il vantaggio di permettere alla classe di lavorare in parallelo con le lezioni frontali nell’ambito delle materie via via toccate. In caso contrario, c’è il rischio che diventino superficiali o poco incisive.

Quando questi percorsi possono finire o iniziare con la gita scolastica, l’effetto didattico è assai più robusto. In Italia prevalgono i viaggi di istruzione a sfondo artistico-storico, e siamo poco abituati alla gita scolastica scientifica-sperimentale; anche quando si va in gita in un’area protetta, si visitano i luoghi accompagnati dalle guide naturalistiche, e non sempre si “fa con le proprie mani” (tranne che nelle fattorie didattiche, che sono un’ottima eccezione).
Quando incontro insegnanti che si mettono in gioco e una scuola che accetta le sfide, mi piace progettare veri e propri science camp costituiti da 3-5 giorni in totale full immersion su un dato argomento (ad esempio il problema delle plastiche in mare, di cui si diceva prima): si incontrano gli scienziati, si va sui luoghi dove si fa ricerca scientifica e dove si possono riprodurre i gesti e le procedure che gli scienziati usano ogni giorno: momenti molto intensi e attività coinvolgenti, per sviscerare a fondo un problema e tornare a scuola con molti dubbi e altrettante possibili soluzioni.
Chi si occupa di cambiamento climatico sa bene che non esiste LA ricetta, unica e valida per tutti. Contrastare il cambiamento climatico significa capire a fondo una questione, fare una ricognizione più ampia possibile sulle strategie e tecnologie per risolvere un problema e poi tornare a casa magari senza la soluzione in tasca, ma avendo capito il metodo per analizzare la propria realtà e per scegliere dal mazzo delle possibili soluzioni quel mix di strategie che fanno al caso tuo.

La citizen science

Proprio l’ultimo esempio di attività proposto, la gita scolastica, consente alcune riflessioni ulteriori. In particolare, esso rappresenta forse la migliore realizzazione, o se vogliamo l’estensione didattica, del concetto di citizen science tanto raccomandato dall’Unione Europea nei sui diversi programmi quadro.
L’obiettivo della didattica ambientale non è dotare gli studenti di soluzioni, ma offrire loro percorsi utili ad acquisire quelle particolari competenze nel campo delle scienze, della tecnologia e della matematica necessari per poter poi analizzare il proprio contesto ed elaborare soluzioni originali.
Un science camp offre infatti anche la possibilità di fare attività di gruppo, di team building, di problem solving. Permette di dedicare un po’ di tempo alla comunicazione e alla divulgazione della scienza, per scansare le bufale e le fake news. Permette di fare fatica e di “sbucciarsi le ginocchia”. Permette di diventare scettici, critici e liberi pensatori più di qualunque altra attività di due ore in classe.

Piero Angela, in un suo intervento sul sito del CICAP intitolato Obbligati a capire, scrive: «Oggi noi viviamo in un mondo che è proprio il frutto delle trasformazioni che noi stessi abbiamo operato sull’ambiente. L’abbiamo dipinto noi, per così dire, il mondo in cui viviamo. Spesso senza neppure volerlo progettare così come è venuto fuori. Ora, però, dobbiamo viverci dentro, e siamo obbligati a capirlo. Proprio per evitare crisi e collisioni. Quindi la nostra cultura deve essere capace di comprendere e orientare queste trasformazioni. Per non esserne vittime. Infatti non basta essere intelligenti e colti: bisogna avere una cultura adatta al proprio ambiente. E al proprio tempo. Qualunque esso sia».


Suggerimento per attività “take away”: car pooling di classe/scuola

Un’attività concreta di educazione ambientale immediatamente proponibile in classe riguarda la mobilità sostenibile. La scuola è un luogo dove molte persone si recano alla stessa ora tutti i giorni (gli studenti, da soli o accompagnati), partendo da luoghi noti e con percorsi prevedibili e alla stessa ora tornano indietro (con meno omogeneità, ma comunque con flussi consistenti). Gestire in modo più sostenibile questi tragitti è assai facile: basta organizzare dei car pooling di classe o di scuola.

FASE 1

Sulla LIM si proietta una mappa dettagliata del vostro paese o della vostra città, sistemando lo zoom in modo che tutte le abitazioni di tutti i compagni di classe siano comprese nella proiezione. A turno, ogni ragazzo indica sulla cartina il punto in cui abita e il tragitto che compie per arrivare a scuola. Utilizzando quattro colori diversi evidenziate chi raggiunge la scuola a piedi, chi usa la bicicletta, chi si fa accompagnare in auto e chi invece si sposta con il pulmino.

FASE 2

Ci sono tragitti dello stesso colore che si sovrappongono? Se questi tragitti non superano i 2 chilometri, è possibile organizzare un gruppo unico di persone che arriva a scuola a piedi? Se questi tragitti sono inferiori ai 3-4 chilometri, è possibile organizzare dei punti di ritrovo per fare insieme la strada in bicicletta? Camminare e pedalare insieme è più divertente, e ci permette di conoscere meglio i nostri amici. Se ci sono tragitti automobilistici comuni a più persone, perché non organizzare un car pooling? In questo modo ci sarà un solo genitore a portare più compagni contemporaneamente. Se si organizzano dei turni sarà possibile “muovere” meno automobili, andando così a migliorare sia la qualità dell’aria che quella della circolazione del traffico. Un risparmio energetico che si trasforma in benessere per tutti.

FASE 3

Se questo lavoro di raccolta dati viene eseguito in più classi, si possono ovviamente unire i dati e rinforzare ulteriormente i gruppi di persone che seguono un tragitto: vuol dire che chi si muove a piedi o in bici ottiene più “massa critica” (che significa più protezione intrinseca rispetto ad automobilisti irriguardosi), mentre i tragitti in auto possono contare su più vetture che si muovono sulle stesse strade, e dunque si aumenta la probabilità di gestire gli imprevisti dell’ultimo minuto.>

Organizzare la mobilità sostenibile di una scuola è davvero facile, grazie ai programmi di navigazione collegati al GPS e capaci di suggerire percorsi in base al traffico momento per momento (Waze, per esempio, che è una vera e propria community), prendendo a prestito la filosofia di BlaBlaCar e creando dei gruppi apposta su Whatsapp.

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Note a margine

Sapete quali sono le obiezioni più frequenti, quando la propongo in una classe? Quelle dei genitori che «non si fidano a mandare il figlio in auto con sconosciuti» o che non si prendono «la responsabilità» di guidare a turno un gruppo di pedibus o bicibus. Ma anche quelle di dirigente e segreteria, che sollevano questioni di privacy nel momento in cui vengono condivisi numeri di telefono di minori.
Per un verso o per un altro, sono sempre gli adulti e la loro pigrizia o rigidità mentale che bloccano iniziative virtuose. Ha ragione Greta?

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Andrea Vico

Giornalista e divulgatore, da trent’anni si occupa di scienza, ambiente, tecnologie. È autore di libri di scienza per ragazzi con Editoriale Scienza, progetta e gestisce percorsi di educazione ambientale per scuole elementari, medie e superiori, . referente della didattica del Parco Fluviale Gesso e Stura (Cuneo), insegna Comunicazione della Scienza all’Università di Torino, ed è fondatore e presidente di ToScienceCamp, per offrire ai ragazzi science camp estivi e alle scuole gite scolastiche a sfondo ambientale.

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