La scuola della parola

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Se è vero che «in principio era il Verbo», ovvero che il linguaggio verbale è il responsabile della generazione del pensiero e non viceversa; che siamo nel mezzo di una «mutazione antropologica» o «rivoluzione» digitale; che il cervello è un organo particolarmente plastico, che se viene stimolato sempre meno rischia di atrofizzarsi; e che «gli strumenti della comunicazione digitale, con i loro indubbi vantaggi, ci allontanano dalla ricchezza umana della parola», qual è l’antidoto?

Lamberto Maffei, neurobiologo di fama già presidente dell’Accademia dei Lincei, ha intitolato un breve saggio uscito nel luglio dello scorso anno Elogio della parola (il Mulino, Bologna 2018). Il testo, arricchito dall’autorevole Presentazione di Luca Serianni, risponde ai criteri della divulgazione scientifica – attività a cui gli scienziati più illuminati si dedicano con passione civile.
Il tema è quello del linguaggio verbale: Sapiens è l’unica specie del Pianeta in grado di produrre «una stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia». Ma l’istinto di raccontare e di condividere esperienze con la parola, dapprima orale e poi anche nella sua forma scritta – quel tratto che, in violazione delle leggi biologiche fondamentali della sopravvivenza e della riproduzione, ha consentito lo sviluppo della civiltà –, oggi registra forme di progressiva disaffezione: si comunica, certo, ma attraverso messaggi brevi, spesso iconici, all’insegna di un minimalismo comunicativo che rifugge dalla complessità, fatica ad adattarsi ad argomenti impegnativi, non agevola un’interazione efficace fra gli interlocutori.
Fin dalle prime pagine Maffei osserva che oggi «la tribù rifugge dalla conversazione e dalla lettura dei libri e tende ad appartarsi per comunicare solo attraverso lo strumento digitale» (p. 21). La domanda a cui il neurobiologo cerca di dare una risposta in termini scientifici è semplice, ma urgente: quali sono le modificazioni a livello fisiologico che questa «fuga dalla parola» – privata della sua accezione nobile e alta, sottratta alla sonorità e alla materialità del supporto – è destinata a produrre nella struttura e nelle funzioni del cervello, con riguardo alle dinamiche evolutive della nostra specie?

In principio era il Verbo

Il linguaggio della parola, il cui sviluppo è stato reso possibile da alcune caratteristiche fisiologiche dell’uomo, rientra fra i compiti funzionali dell’emisfero sinistro del cervello, quello che cerca di dare spiegazioni razionali del mondo e di interpretarlo (come è stato ben evidenziato dagli studi recenti di psicofisiologia di Michael Gazzaniga); la scienza ha dimostrato che il linguaggio verbale è il responsabile della generazione del pensiero e non viceversa: insomma, nella relazione fra pensiero e linguaggio è proprio il caso di dire che “in principio era il Verbo”, che lo sviluppo della facoltà parola è stato il motore dello sviluppo del cervello e delle facoltà razionali che in esso hanno sede.

In principio era il Verbo: la scienza ha dimostrato che il linguaggio verbale è il responsabile della generazione del pensiero e non viceversa.

Il testo sacro giovanneo – che peraltro trova eco in affermazioni d’ispirazione laica («senza la lingua la nostra facoltà di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori» scrive Albert Einstein in Il mondo come io lo vedo) e a cui alludeva in forma interrogativa anche Tullio De Mauro in un contributo del 2009 (In principio c’era la parola?) – contiene una verità che gli studi più recenti nel campo delle neuroscienze si sono incaricate di confermare: tutto è cominciato con la parola.

Meno parole = meno pensiero

Se la possibilità di articolare suoni, a cui attribuire un significato simbolico e financo astratto, e di organizzarli in un sistema regolato da precise norme che chiamiamo lingua ha consentito al pensiero umano di manifestarsi e di svilupparsi, è innegabile – osserva Maffei – che «gli strumenti della comunicazione digitale, con i loro indubbi vantaggi, ci allontanano dalla ricchezza umana della parola» (p. 56) e, di fronte alla rivoluzione digitale, in continuo progresso e dal carattere tanto invasivo, è lecito pensare che l’evidente atrofizzazione delle facoltà del linguaggio verbale da molti osservata corrisponda, nel lungo periodo, anche a una regressione a livello di facoltà razionali che proprio la parola reso possibili e sviluppato gradualmente.
Gli strumenti della comunicazione digitale, con i loro indubbi vantaggi, ci allontanano dalla ricchezza umana della parola.In pratica, lo scenario è quello di una possibile involuzione: il cervello è un organo particolarmente plastico; non tanto l’anatomia dell’organo, quanto le sue funzioni e pure la struttura a livello di connessioni simpatiche subiscono influenze importanti dall’ambiente circostante. Esperienze di vita diverse producono cervelli diversi: questo dice il buonsenso, e la scienza lo conferma.
Se l’emisfero cerebrale del linguaggio e della razionalità (il sinistro, nei destrimani) viene stimolato sempre meno nei suoi metabolismi a causa delle tecnologie della parola ormai così ampiamente diffuse, così come accade nel caso di altri organi e tessuti, i suoi centri sono destinati all’atrofia nel lungo termine, nel breve a una diminuzione della complessità del discorso e del pensiero: scrive il neurobiologo che «l’impoverimento dell’uso della parola potrebbe portare la specie umana indietro di migliaia di anni […] con conseguenze imprevedibili sul comportamento sociale» (p. 73).

 

La «scuola della parola»

«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva»: così scriveva già Calvino nella lezione americana sulla Esattezza. L’antidoto più efficace per prevenire il declino cognitivo e neutralizzare l’azione potenzialmente devastante del «ciclone digitale», fortemente penalizzante anche per la dimensione creativa dell’uomo, consiste, secondo Lamberto Maffei, nella «scuola della parola», un luogo di discussione costruttiva e confronto verbale: è del tutto evidente, osservando i nostri studenti, che a seguito dell’uso degli strumenti digitali si stanno rapidamente trasformando non solo gli stili comunicativi, ma anche e soprattutto i meccanismi cognitivi. Alcuni ravvisano in questo fenomeno i tratti della «mutazione antropologica», altri parlano di una «rivoluzione»: dopo l’invenzione della scrittura, sarebbe la quarta rivoluzione, sia con riguardo al supporto della parola scritta (volume, codice, libro a stampa, schermo) sia secondo la successione di paradigmi culturali definiti da Luciano Floridi (copernicano, darwiniano, freudiano e digitale).

La lettura di un testo (una poesia, la pagina di un classico, un buon articolo di giornale) favorisce il compito-dovere della scuola di immettere nella società cittadini critici e non sudditi creduloni.

La «scuola della parola» è «la scuola dell’emisfero cerebrale del linguaggio, quello della razionalità, è la scuola della riflessione del pensiero lento, quella che insegna che bisogna riflettere prima di decidere, e pensare prima di credere» (p.69). Maffei sottolinea che «la conoscenza va conquistata e non assorbita passivamente» (p. 68): la lettura di un testo (una poesia, la pagina di un classico, un buon articolo di giornale) diventa in una classe – evidentemente intesa come comunità ermeneutica – l’occasione privilegiata per aprire il dibattito di idee, soprattutto favorisce il compito-dovere della scuola di «immettere nella società cittadini critici e non sudditi creduloni» (p. 70).

Un cervello bi-alfabetizzato

Sebbene i cambiamenti nel campo della comunicazione avvengano con intervalli progressivamente sempre più ravvicinati, nell’evoluzione millenaria dall’oralità primaria al digitale la persistenza del vecchio nel nuovo è una costante non trascurabile, come osserva Massimo Palermo (in Italiano scritto 2.0. Testi e ipertesti, Carocci, Roma 2017, p. 20 ): vale la pena di sfruttarla e di continuare a educare le nuove generazioni alla parola, quindi alla lettura (comprensione/ricezione), alla scrittura (produzione) e all’interazione verbale: come ha scritto in proposito la studiosa del Massachusetts Institute of Technology (Mit) Sherry Turkle (autrice del volume La conversazione necessaria, Einaudi, Torino 2016, traduzione italiana di Luigi Giacone), la società non sbaglia quando introduce un’innovazione, ma quando non tiene conto dei danni che può provocare.Vale la pena, forse, coltivare un nuovo tipo di cervello “bi-alfabetizzato”, in grado di usare sia i mezzi digitali sia quelli tradizionali. I ”testi” sono forme della comunicazione verbale in cui la lingua si organizza come discorso e sono altra cosa rispetto a un’ampia serie di prodotti della comunicazione verbale che popolano la nostra quotidianità. I giovani hanno difficoltà sempre maggiori sia in fase di ricezione dei testi che in fase di produzione e interazione, nelle varie forme possibili (orale, scritta e pure digitata) e ciò pare direttamente imputabile alla consuetudine di frequentare testi molto brevi, ovvero di praticare forme superficiali di lettura favorite dai supporti digitali, sui quali è prassi comune scorrere un testo piuttosto che leggerlo, soffermandosi solo su alcune parole, usando lo schema a F o a Z, andando a caccia di parole chiave. L’ambiente digitale, così assiduamente frequentato dai nostri studenti, favorisce una lettura superficiale e/o selettiva, simultanea piuttosto che sequenziale, frammentaria e discontinua. In questo modo, il nostro cervello riduce sensibilmente il tempo dedicato ai processi di lettura profonda, e non ha il tempo di cogliere la complessità, di percepire la bellezza, di provare emozione e di formulare pensieri critici.
Per questo vale la pena, forse, coltivare un nuovo tipo di cervello “bi-alfabetizzato”, in grado di usare sia i mezzi digitali sia quelli tradizionali, come ha scritto Maryanne Wolf in un recente articolo pubblicato su «The Guardian» (ora in «Internazionale» n. 1277, 12 ottobre 2018) dal titolo significativo Doppia lettura (cioè su supporto digitale e analogico).
Alla scuola della parola spetta dunque un compito delicato in questa fase: cogliere le opportunità del nuovo, ma con una dose di sana prudenza che ci viene suggerita da fonti autorevoli e sostenuta da robuste argomentazioni scientifiche.

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Claudia Mizzotti

Già bibliotecaria, insegnante di Lettere italiane e latine nel liceo e formatrice, è autrice Loescher di un manuale di storia.

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