L’antropologo entra in classe. Gli studenti escono

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Il contributo dell’antropologia a una prospettiva pedagogica capace di aprire la scuola al dialogo con i migranti e la città. Dal numero 15 de «La ricerca».
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Jabbar, uno dei giocatori del Villarotta Cricket, Villarotta di Luzzara. Photo © Luana Rigolli.

Mi si perdoni il titolo volutamente provocatorio. Non voglio qui evocare una fuga di studenti terrorizzati dall’arrivo a scuola di un mostro antropofago, ma indicare una prospettiva pedagogica in cui la disciplina che amo e pratico è chiamata a svolgere un ruolo che ritengo fondamentale: accompagnare docenti e allievi fuori dalle aule scolastiche per vivere l’incontro con l’alterità. Non importa che tale esperienza avvenga con una breve passeggiata nel territorio circostante o con un vero e proprio viaggio altrove, in ogni caso la mobilità sarà parte imprescindibile dell’approccio che voglio proporre e discutere.

Del resto, lo spostamento nello spazio da sempre accompagna l’atto educativo, il flusso di conoscenze che circolano nella pratica dell’insegnare e dell’apprendere. Dai filosofi peripatetici agli intellettuali del Gran Tour, da millenni gli uomini sanno bene che per imparare occorre andare. La disciplina che ha fatto di tale consapevolezza la sua ragione d’essere è l’antropologia culturale. Gli antropologi hanno identificato il proprio metodo di ricerca con un semplice (e al tempo stesso complicatissimo) binomio: il viaggio e l’incontro. Come ha ben illustrato Francesco Remotti1, nella storia del pensiero filosofico occidentale si sono intrecciate due diverse tendenze: il “giro breve”, seguito da coloro i quali hanno ritenuto (sulla scia di Platone e Cartesio) di giungere a comprendere l’Uomo per “via interna”, attraverso la razionalità e l’immediatezza del puro intelletto; e il “giro lungo”, praticato invece da chi, come Erodoto o Montaigne, ha pensato che occorresse accettare la sfida della pluralità e della diversità delle abitudini e dei costumi degli Uomini. Insomma, una “via esterna” verso la saggezza che per giungere al Noi passa necessariamente attraverso gli Altri.

Cosa ha a che fare tutto ciò con la scuola? Per rispondere a questa domanda voglio qui ricordare la lezione di Antonio Erbetta, pedagogista, per molti anni docente di Storia dell’educazione europea all’Università di Torino, prematuramente scomparso nel 2011. È a lui che devo la scoperta della pedagogia fenomenologica di Piero Bertolini2. Un approccio che vede nella scuola un luogo di formazione umana orientata a rendere il soggetto capace di dare continuamente senso alla propria vita, e l’insegnante come colui che facilita le opportunità per lo studente di interagire con una molteplicità di interlocutori e contesti, allargando così la propria esperienza e imparando a ripensare se stesso, gli altri, il mondo da diversi punti di vista. In sintesi, per citare lo splendido (e quasi del tutto dimenticato) saggio di Georg Simmel del 19223: L’educazione in quanto vita.

Una città educante

Torno ancora ai miei ricordi universitari. Il primo corso che seguii da matricola nel 2001 fu Storia dell’Europa orientale, tenuto da Marco Buttino. L’argomento in programma era la guerra nell’ex Jugoslavia. Il docente ci accolse in aula e, invece di fare lezione dietro la cattedra, ci portò con sé a Porta Palazzo, il grande mercato torinese che si tiene non lontano dall’Università. Là incontrammo due famiglie rom bosniache, fuggite dal conflitto jugoslavo qualche anno prima, giunte a Torino e vissute da allora al “campo nomadi”. Parlammo con loro, ci fermammo a mangiare insieme. Quella lezione, non faccio fatica a riconoscerlo, ha cambiato per sempre il mio modo di intendere l’insegnamento.

Ho avuto la fortuna di (ri)entrare presto a scuola. Nei primi anni Duemila vi erano significative risorse per attivare progetti interculturali, e nel 2005 mi fu data l’opportunità di insegnare italiano L2 a una classe di allievi sinofoni presso la scuola media Croce di Torino. Mantenni l’incarico per cinque anni, e per tutto il tempo cercai di sfondare teatralmente la quarta parete dell’aula lavorando insieme agli allievi sul loro rapporto con lo spazio urbano. Mi aiutò il fatto che si trattasse di ragazzi molto autonomi, abituati a spostarsi da soli in città, anche se lungo percorsi limitati e ripetitivi (tragitto casa-scuola-luogo di lavoro dei genitori). Esplorammo insieme il quartiere, realizzammo mappe mentali di Torino, fotografie dei luoghi per loro più significativi, raccogliemmo racconti e interviste che confluirono nel libro Torino è casa nostra4.

Ho provato ad adottare il medesimo approccio anche quando, qualche anno più tardi, ho cominciato a insegnare all’Università. Specializzandomi in “Antropologia delle migrazioni” ho condotto i miei studenti a fare lezioni presso la sede di associazioni di migranti, in moschea, nei luoghi di incontro di richiedenti asilo e rifugiati di un progetto SPRAR… Frequentando il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca mi son reso conto che quel che tentavo di fare aveva un nome: educazione diffusa. Scrivono Paola Mottana e Giuseppe Campagnoli nel passo di apertura del loro libro-manifesto La città educante5:

Immaginiamo che non esistano più edifici chiusi e muri dove i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze restino confinati per il tempo della loro educazione ma che questi, come certi giochi di carta, improvvisamente pieghino le loro pareti verso l’esterno, per lasciare che essi escano fuori, si mescolino al mondo, sciamino per le strade (…). Occorre che essi possano tornare ai luoghi da amare, alla città anzitutto, che è un insieme di luoghi per apprendere, cercare, errare (l’errore!) osservare, fare e conservare per condividere, riconoscersi e riconoscere. (p.9)

Un radicale cambiamento della scuola, dunque, che innescherebbe inevitabilmente una trasformazione della città, del modo di immaginare e costruire gli spazi pubblici, di renderli sicuri, accoglienti, abitabili. In definitiva, una via per ripensare la qualità delle relazioni sociali che vi si coltivano.

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Abrar, uno dei giocatori del Villarotta Cricket, alla ricerca della pallina nel campo di grano adiacente al piazzale che usano come campo da gioco e dove spesso perdono le loro palline, Villarotta di Luzzara (RE). Photo © Luana Rigolli.

Il progetto Migrantour

Il 2018 è stato un anno di svolta nei rapporti tra antropologia e scuola: questa disciplina così marginale, così poco conosciuta e insegnata, è (improvvisamente) diventata importante per gli insegnanti. Il DL59/2017 ha infatti stabilito che l’antropologia, insieme a pedagogia, psicologia e didattica, costituisce uno dei quattro ambiti disciplinari in cui chi vuole accedere alla professione di docente scolastico deve aver obbligatoriamente acquisito conoscenze. Il risultato di tale riforma è stato che gli Atenei italiani sono stati chiamati ad avviare in breve tempo decine di corsi di antropologia “pre-FIT”, seguiti da migliaia di persone che, in molti casi per la prima volta nella loro carriera di studio e lavoro, sono entrati in contatto con l’antropologia culturale. Per la disciplina si è trattato di un riconoscimento in parte inaspettato e forse frutto di un malinteso di fondo sul senso del nostro sapere, chiamato in causa sostanzialmente per indicare soluzioni al “problema” della differenza culturale legata alla presenza di alunni “stranieri” (in qualunque modo si voglia intendere questa etichetta, ossia come spesso avviene includendovi anche le seconde e terze generazioni dell’immigrazione)6. Al tempo stesso tale opportunità ha permesso di valorizzare una serie di conoscenze, ricerche e interpretazioni sul mondo della scuola che l’antropologia culturale aveva sviluppato nel corso dei decenni a livello internazionale e che anche in Italia ha una sua consolidata tradizione7.

Cosa può dunque fare l’antropologia nella scuola, per la scuola italiana in un momento in cui il discorso pubblico, la comunicazione mediatica e la propaganda politica pongono più che mai al centro dell’attenzione la questione accoglienza in termini di incompatibilità tra società locale e immigrati, di scontro tra identità nazionale e minaccia straniera? Di fronte ai fautori della “città chiusa”, fatta di muri, di segregazione e dispositivi di controllo, ritengo che l’antropologia possa costruire insieme alla scuola l’alternativa di una “città aperta”. Per illustrare questo paradigma, e in particolare con quali strategie si possa “aprire la città”, Richard Sennett ha da poco pubblicato un volume affascinante, Costruire e abitare. Etica per la città8. Nel mio piccolo, vorrei invece qui presentare un’esperienza concreta realizzata a partire dal 2009 con un numero crescente di scuole torinesi e non solo: il progetto “Migrantour9.

Di cosa si tratta? L’idea di base è la seguente: proporre un’esperienza di turismo urbano interculturale configurata come “uscita didattica” per l’ultimo biennio della scuola primaria e per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Una passeggiata in alcuni quartieri della città percepiti generalmente dall’opinione pubblica come “poco sicuri” o “degradati” per la forte presenza di comunità migranti. La particolarità di tale proposta? Il fatto che gli itinerari di visita e incontro siano ideati e accompagnati da migranti di prima e seconda generazione, residenti nei quartieri e professionalmente formati come “accompagnatori interculturali”.

Migrantour è nato a Torino e si è rapidamente diffuso in altre città italiane ed europee: oltre che nel capoluogo piemontese, oggi è attivo a Milano, Genova, Roma, Firenze, Napoli, Bologna, Pavia, Cagliari e Catania, Marsiglia, Parigi, Valencia, Lisbona, Bruxelles e Ljubljana. Nella sola Torino vengono realizzate oltre 100 passeggiate ogni anno e oltre 12.000 persone hanno visitato i quartieri di Porta Palazzo, San Salvario, Borgo San Paolo, Mirafiori e Barriera di Milano. Gli accompagnatori interculturali sono centinaia (in media 10-15 per ogni città) di donne e uomini di oltre trenta diversi paesi, che durante gli itinerari da loro stessi creati si impegnano in una complessa opera di tessitura tra le proprie personali esperienze di vita, il racconto delle storie degli altri (amici, migranti, concittadini) e la spiegazione del contributo che le migrazioni hanno dato alla storia della città.

La passeggiata si svolge tra vie, piazze, negozi e mercati; la voce narrante principale è quella dell’accompagnatore, ma non mancano mai le soste e i momenti di incontro con altri interlocutori sul territorio: ci si ferma in moschea per parlare con l’imam, si entra in un’associazione di donne bengalesi per incontrarne una rappresentante, ci si riposa in una gastronomia peruviana chiacchierando con la famiglia che l’ha aperta. E così si impara che le città, da sempre, sono fatte dai migranti: chi è arrivato dalle campagne o dai monti, chi da una diversa regione d’Italia, chi da un altro Paese. Una città fatta di luoghi dove si può entrare, spazi non sottratti alla cittadinanza dalla loro alterità, ma aperti nella loro diversità e specificità.

Racconta Essediya, accompagnatrice interculturale Migrantour a Torino:

Sono nata in Marocco e vivo in Italia dal 2002, sono sposata con tre bambini. Questo lavoro mi piace molto perché mi dà l’opportunità di raccontare un po’ la mia storia e magari cambiare così la mentalità delle persone e lo sguardo che spesso purtroppo hanno quando guardano noi marocchini e gli arabi in generale. Molti studenti quando arrivano si vede che sono un po’ impauriti, che i genitori gli hanno detto di fare attenzione e cose del genere. Poi quando finiscono la passeggiata sono tutti contenti, mi dicono spesso: ma non sapevo che Porta Palazzo fosse così bella, magari in quel negozio ci tornerò con i miei… sono proprio cose che ti rallegrano il cuore!

Le fa da ideale controcanto Francesca, studentessa del Liceo “Arimondi” di Savigliano, che con Migrantour ha visitato il quartiere di San Salvario:

Stiamo camminando verso un mondo sempre più globale, grazie soprattutto alle migrazioni. Per questo non possiamo più limitarci a riconoscere solo ciò che ci circonda, ma dobbiamo aprirci alla diversità. Zone come San Salvario dovrebbero essere oggetto di interesse per chiunque: qui vivono persone di ogni parte del mondo. La visita è stata interessante e il motivo principale è la presenza di ragazzi provenienti dal quartiere a condurre il piccolo viaggio. Solo chi appartiene a ciò di cui sta parlando riesce veramente a esprimere e a trasmetterne la realtà a chi ascolta.

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Ahmed, uno dei giocatori del Villarotta Cricket, Villarotta di Luzzara (RE). Photo © Luana Rigolli.

Conclusioni: la scuola di Lampedusa

A Lampedusa c’è un’unica scuola, l’Istituto Onnicomprensivo “Luigi Pirandello”: dalla scuola dell’infanzia alle superiori, centinaia di allievi e pochi insegnanti. Andare a scuola a Lampedusa non è facile per i ragazzi del posto. Eppure, ogni anno, studenti di diverse regioni d’Italia vanno a imparare a Lampedusa. Che cosa? Qualcosa di complesso che ha che fare con la globalizzazione, le migrazioni, le diseguaglianze economiche, la militarizzazione del Mediterraneo, le politiche di accoglienza e di chiusura dei confini europei…
Alcuni anni fa l’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR) ha siglato un accordo con il Comune di Lampedusa e Linosa per promuovere forme di turismo “umano e sostenibile” sull’isola. Ho avuto così l’occasione di lavorare con la cooperativa “Viaggi Solidali” per proporre Lampedusa come meta di un viaggio d’istruzione che è stato scelto da un buon numero di scuole medie e superiori. Una “gita” molto particolare, che permette di incontrare chi vive sull’isola e chi qui lavora con i migranti, nonché di trascorrere una giornata di scambio con i coetanei della scuola lampedusana.

Il 1° dicembre 2017 il liceo “Vittorio Veneto” di Milano ha organizzato una serata pubblica affinché gli studenti della 5F potessero condividere la loro esperienza con gli altri allievi, i genitori e il corpo docente. La riflessione che la diciottenne Giulia ha proposto in quella circostanza mi pare la conclusione più appropriata per questo mio contributo sul rapporto tra antropologia, scuola e migrazioni:

Per quante ricerche possiamo fare sui libri o su internet non possiamo mai davvero sapere quel che troveremo in un luogo. Se guardate i due cartelloni su cui abbiamo scritto quel che pensavamo a proposito di Lampedusa prima e dopo il viaggio capirete bene quanto sia stato importante andare là… Le parole-chiave prima erano: immigrati, sbarchi, isolamento, desolazione, differenza, Africa. Dopo: persone, paesaggio, legami, colore, novità, ignoranza (nostra). Siamo partiti con la testa piena di notizie sull’invasione dei migranti, e ci siamo ritrovati là a parlare con i ragazzi del posto del loro desiderio di emigrare a Palermo o Roma per studiare all’Università, di tornare un giorno a lavorare sull’isola dove sono nati… abbiamo ascoltato i pescatori, che pensavamo fossero ignoranti, che ci hanno spiegato come rammendare una rete da pesca, noi non avremmo saputo da che parte cominciare. Abbiamo imparato un poco a capire gli altri, a guardare il mondo dal loro punto di vista. 


NOTE

1. F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
2. P. Bertolini, Pedagogia fenomenologica. Genesi, sviluppo, orizzonti, La Nuova Italia, Firenze 2001.
3. G. Simmel, L’educazione in quanto vita, Il Segnalibro, Torino 1995.
4. F. Vietti, a cura di, Torino è casa nostra. Viaggio nella città migrante, Mangrovie, Napoli 2008.
5. P. Mottana, G. Campagnoli, La città educante. Manifesto della educazione diffusa, Asterios Editore, Trieste 2017.
6. P. Vereni, La ninfa e lo scoglio. Riflessioni sul senso dell’antropologia culturale, UniversItalia, Roma 2018.
7. M. Benadusi, La scuola in pratica. Prospettive antropologiche sull’educazione, Editpress, Firenze 2017.
8. R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018.
9. F. Vietti, Turismo urbano interculturale. Lo sguardo antropologico delle ‘guide migranti’, in A. Palmisano, a cura di, “Antropologia applicata”, Pensa Editore, Lecce 2015.

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Francesco Vietti

È antropologo e ha conseguito il dottorato di ricerca in “Migrazioni e processi interculturali” all’Università di Genova. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Milano-Bicocca e insegna Antropologia sociale all’Università di Torino. Collabora con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti di antropologia applicata nel campo delle migrazioni, del patrimonio culturale e del turismo responsabile. Tra le sue pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi, Milano 2010), Hotel Albania (Carocci, Roma 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci, Roma 2014).

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