Gli effetti della prospettiva daltonica a scuola

Tempo di lettura stimato: 20 minuti
È vero che il concetto di razza non ha basi scientifiche; è anche vero che una scuola che non affronta il razzismo cancella il vissuto degli studenti. Traduciamo un articolo davvero illuminante su che cosa succede a scuola – di Janet Ward Schofield*
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Studenti a Boston nel 1973. © Boston City Archives.

Lo scopo della mia ricerca è analizzare le relazioni tra studenti afroamericani e bianchi in condizioni favorevoli, almeno in teoria, allo sviluppo di rapporti positivi tra di loro. Ho scelto quindi la Wexler Middle School, un istituto di una grande città del Nord-Est nato per diventare il modello di un’educazione integrata di alta qualità. Quando è nato aveva un corpo studentesco (1.200 bambini) composto per il 50% da afroamericani e per il 50% da bianchi. Le prime quattro posizioni amministrative sono occupate da due afroamericani e due bianchi, a simboleggiare l’impegno della scuola nel fornire pari condizioni ai membri di entrambi i gruppi, fornendo al contempo sia agli studenti bianchi sia a quelli afroamericani l’opportunità di rapportarsi quotidianamente con persone che condividono la loro identità razziale in posizioni di autorità nella scuola.

La situazione non è però così idilliaca come sembrerebbe. Nonostante gli sforzi fatti, la percentuale di insegnanti afroamericani è solo del 25%. Va poi considerata la differenza di status socio-economico. La stragrande maggioranza degli studenti bianchi della Wexler proviene dalla classe medio-alta, mentre gli afroamericani appartengono in pochi casi alla classe media, e per il resto provengono da famiglie povere o della classe operaia.

In breve, la Wexler ha fatto più sforzi del solito per promuovere relazioni positive tra studenti afroamericani e bianchi, ma decisamente non è riuscita a ricreare l’ambiente ideale per raggiungere quest’obiettivo.La mia analisi si basa su uno studio intensivo durato quattro anni delle relazioni umane nella Wexler.

I dati sono stati raccolti attraverso l’osservazione diretta dei ragazzi nelle aule, nei corridoi, in mensa e nelle aree ricreative, prestando particolare attenzione ad alcune attività, come le lezioni di Educazione Affettiva, progettate per aiutare gli studenti a conoscersi, e le riunioni del Gruppo Studentesco Interrazziale, istituito per gestire eventuali problemi di tensioni interrazziali.

La prospettiva colorblind e i suoi corollari

La Wexler sottoscrive e applica alla propria realtà interrazziale la visione daltonica tipica delle politiche educative americane. La maggioranza degli insegnanti afroamericani e bianchi vede la loro scuola come un’istituzione che si assume il compito di impartire i valori e le modalità di comportamento tipiche della classe media ai suoi studenti, inclusi quelli più svantaggiati, in modo che possano uscire dal ciclo della povertà. Anche se la maggior parte di questi studenti sono afroamericani, la razza è considerata un elemento del tutto incidentale. Come spiega un amministratore afroamericano della Wexler:

Non faccio affatto caso alle differenze etnico-razziali quando ho a che fare con i ragazzi. Non mi interessa chi sono, li tratto come ragazzi e non come neri, bianchi, verdi o gialli. Molti neri in difficoltà vengono da comunità in cui hanno necessità di difendersi e queste difese sono l’esatto contrario di una situazione di normalità… la normalità che invece trovano a scuola. È difficile fare capire loro che qui devono seguire delle regole… Penso che la maggior parte dei giovani in generale abbia un insieme di valori più normale, e quindi non ha molte difficoltà a scuola… I bambini neri invece hanno difficoltà perché non sono abituati. 

Un elemento atipico di questo stralcio di conversazione è il riconoscimento aperto del fatto che i bambini privi di un normale insieme di valori sono quelli afroamericani. In genere questo presupposto rimane implicito nelle dichiarazioni che sottolineano l’effetto negativo di crescere in una famiglia povera o in un quartiere a basso reddito.

In quanto reazione alle pericolose distinzioni di razza fra individui storicamente portate avanti negli Stati Uniti, la prospettiva daltonica è comprensibile, persino lodevole. Alla Wexler, tuttavia, questo approccio si accompagna a una serie di altre convinzioni collegate, che producono conseguenze negative importanti, sebbene in gran parte non riconosciute.

La razza come caratteristica invisibile

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L’intervallo alla Barnard School, una delle prime scuole in cui è stata praticata l’integrazione razziale, Washington, 1955, Getty Images.

Anche se sembra assurdo, fra il sostenere che la razza è una categoria sociale e la convinzione che gli individui non dovrebbero nemmeno accorgersi della reciproca appartenenza al gruppo razziale non vi è un grande salto logico. Di fatto, alla Wexler molti sono convinti che essere consapevoli dell’appartenenza razziale di un altro individuo sia di per sé sintomo di un pregiudizio:

Mentre cercavo di concordare con gli insegnanti le interviste ai loro studenti, ho fatto notare a un maestro (bianco) che in una delle sue classi vi era solo una ragazza bianca. Lui mi ha detto: «Un attimo. Fammi controllare». E dopo aver esaminato l’elenco: «Hai ragione. Non l’ho mai notato». 

Allo stesso modo, una parte considerevole dei professori della Wexler afferma che raramente gli studenti notano la razza. 

Professoressa Monroe: Gli studenti litigano per cose stupide, ad esempio qualcuno che ruba a un altro una matita. Non litigano perché uno è nero e l’altro bianco. A questa età… non pensano all’essere neri o bianchi.

Intervistatore: È difficile da credere, dato il modo in cui funziona la nostra società…

Professoressa Monroe: Si limitano a fare le cose quotidiane; non penso che ci pensino… Li vedo interagire gli uni con gli altri come adulti… Non sono realmente consapevoli del colore… o della razza. 

Molte ricerche suggeriscono però che questa visione non è accurata. Gli studi sui fenomeni di stereotipizzazione e di percezione della persona hanno messo in luce che gli individui tendono a utilizzare categorie preesistenti nel percepire e nel relazionarsi con gli altri: usano spontaneamente l’aspetto fisico come base per classificare il prossimo in razze. 

Dal momento che gli insegnanti e gli studenti della Wexler fanno parte di un’ istituzione interrazziale, si potrebbe pensare che siano meno inclini a utilizzare la razza come categoria. Tuttavia, sembra altamente improbabile che le persone non si accorgono nemmeno della razza degli studenti. Le interviste con gli studenti dimostrano infatti che molti studenti sono consapevoli della loro appartenenza razziale e di quella dei loro coetanei.

Intervistatore: Puoi dirmi chi sono alcuni dei tuoi amici?

Beverly [afroamericana]: Beh, Stacey e Lydia e Amy, anche se Amy è bianca.

La razza come argomento tabù

Un fenomeno legato strettamente alla prospettiva daltonica è il tabù contro l’uso delle parole bianco e nero, anche in contesti che si riferiscono chiaramente all’appartenenza a un gruppo etnico-razziale. In 200 ore di osservazione in aula, nei corridoi e negli incontri fra insegnanti ho rilevato meno di 25 riferimenti diretti alla razza. Quando si parla di individui o di gruppi, qualsiasi uso delle parole bianco e nero è classificato come riferimento alla razza, come pure lo sono gli epiteti razziali e le forme di saluto tipiche di una specifica comunità (ad esempio: “Ehi, fratello”). 

Tutto ciò è sorprendente considerando che le nostre osservazioni includono un’ampia varietà di situazioni, sia formali sia informali, incluse le conversazioni tra studenti nei campetti da gioco e nei corridoi. Gli studenti sono ben consapevoli del fatto che fare riferimenti alla razza non piace affatto agli insegnanti e può essere considerato una offesa verso i compagni. Lo testimoniano questi appunti presi sul campo:

La professoressa Fowler chiede a Martin di descrivere un bambino che ha commesso una marachella. 

Martin: Ha i capelli neri ed è piuttosto alto. 

Pur dandone una descrizione abbastanza completa non fa nemmeno un accenno alla razza. 

Professoressa Fowler: Ma è nero o bianco? 

Martin: Va bene se lo dico?

Professoressa Fowler: Si, va bene.

Martin: Ok, è bianco.

La rete di relazioni
interpersonali

Un altro correlato della prospettiva daltonica è la tendenza a concettualizzare la vita sociale come una rete di relazioni interpersonali piuttosto che fra gruppi,  dando per scontato che le prime non siano influenzate dalle seconde.  Come afferma un insegnante:

L’identità di gruppo, qui[…] non ha nulla a che fare con la razza. C’è una forte tendenza a formare gruppi indipendentemente dai confini razziali […] Abbiamo iniziato a settembre coi ragazzi a fargli capire che siamo molto seri su questo […] Sei uno studente, punto, e non ci interessa di che colore sei.

Questo assunto è esemplificato dagli incontri di formazione finalizzati ad aiutare gli insegnanti a interagire con il corpo studentesco razzialmente misto della Wexler. In uno di questi, cui ho avuto modo di partecipare, il facilitatore, uno psicologo clinico bianco, ha esordito con affermazioni generali sull’importanza di comprendere le differenze culturali tra gli studenti. Sebbene abbia tentato più volte di portare il dibattito sui modi in cui la natura mista del corpo studentesco influenzasse le relazioni tra coetanei e avesse un peso nei materiali curriculari, si è finito per discutere altri problemi, come l’aggressività in classe, la scarsa accettazione dei ragazzi sovrappeso e il fatto che i disabili fossero talvolta scherniti dai compagni.

Al contrario, in molte occasioni è apparsa chiara la volontà degli studenti di discutere il ruolo della razza nella vita sociale della Wexler.

Intervistatore: Ho notato che in mensa spesso i ragazzi bianchi siedono con i bianchi e quelli neri con ragazzi neri. Perché secondo te?

Mary [bianca]: “Perché i bianchi hanno amici bianchi e i neri amici neri… Non penso che l’integrazione funzioni… I neri escono ancora con i neri e i bianchi fanno gruppo con i bianchi…

Intervistatore: Riesci a pensare a qualsiasi studente bianco che abbia parecchi amici neri o a un ragazzo nero che ha parecchi amici bianchi?

Mary: Non direi, no.

La tendenza degli studenti della Wexler a raggrupparsi in base alla razza in una serie di contesti diversi è evidente. In una giornata qualunque, alla fine del secondo anno, durante la pausa pranzo erano presenti 119 studenti bianchi e 90 afroamericani. Di questi più di 200 ragazzi, solo 6 sedevano accanto a qualcuno di razza diversa. Naturalmente, è possibile che in questo abbia un peso anche lo status socio-economico e il rendimento scolastico, fattori spesso citati dagli insegnanti.

Eppure i risultati di un esperimento condotto nella stessa Wexler dimostrano che la razza è un fattore reale delle relazioni tra coetanei. A 80 alunni del sesto anno sono state presentate immagini che raffiguravano alcune modalità d’interazione considerate scorrette ma abbastanza diffuse nella scuola, come colpire un altro studente con una matita. Ad alcuni sono state mostrate foto in cui entrambi gli studenti erano afroamericani, ad altri foto in cui entrambi erano bianchi, e ad altri immagini di una coppia mista, metà in cui l’afroamericano appare come colui che dà inizio al comportamento sanzionato e metà in cui invece lo subisce.

I risultati di questo esperimento suggeriscono che la razza della persona associata al comportamento scorretto influenza la percezione della sua pericolosità. È una scoperta incompatibile con la pretesa che gli studenti non facciano caso alla razza dei loro coetanei e che l’appartenenza a un gruppo etnico non influenzi le reazioni fra pari. 

Ridurre i conflitti

Una preoccupazione tipica di molte scuole con una popolazione studentesca etnicamente diversificata è il desiderio di evitare conflitti legati alla razza. A questo scopo, l’adozione di politiche daltoniche si rivela utile, perché protegge l’istituzione dalle eventuali accuse di discriminazione. Inoltre, un approccio daltonico può essere visto, specialmente dagli educatori bianchi, come uno strumento per fare sì che la scuola si focalizzi su argomenti che interessano tutti i gruppi.

Questo non vuol dire che un simile approccio porti a risultati uguali per tutti, perché quando ci sono differenze iniziali che hanno davvero un peso nel successo scolastico, è facile che si raggiungano risultati differenti, una situazione definibile come razzismo istituzionale. La prospettiva daltonica, però, è coerente con la nozione di equità che ha a lungo dominato negli Stati Uniti, e quindi può essere difesa in modo relativamente facile. Senza contare che le politiche che tengono in considerazione l’appartenenza ai gruppi minoritari finiscono spesso per suscitare polemiche.

Vi è un esempio che spiega bene come, nelle situazioni in cui i risultati fra afroamericani e bianchi sono diversi, la prospettiva daltonica minimizzi il conflitto. Il tasso di sospensione degli studenti afroamericani alla Wexler è approssimativamente quattro volte quello dei bianchi. La forte correlazione tra razza e background socioeconomico rende abbastanza scontato il fatto che il comportamento degli studenti afroamericani sia meno ineccepibile di quello dei coetanei bianchi della classe media. Ma questa disparità nei tassi di sospensione non è mai stata considerata un problema.

Quando abbiamo chiesto delucidazioni in merito a docenti e amministratori, alcuni, a volte con un candore un po’ sospetto, hanno negato di averlo mai notato. Altri hanno sostenuto che non era un problema, nel senso che i singoli studenti sono comunque trattati allo stesso modo.

In effetti, gli insegnanti spesso sottolineano il loro sforzo nel gestire i problemi disciplinari in modo equo con gli studenti bianchi e con quelli afoamericani. Nelle rare occasioni in cui sono state sollevate accuse di discriminazione, gli insegnanti hanno sistematicamente sminuito la denuncia, ribadendo il loro impegno daltonico:

Professoressa Wilson [bianca]: Cerco di non ascoltare le accuse di discriminazione. Ogni tanto mi chiedo: “Ok, perché questo ragazzo lo sta dicendo?”. Ma dentro di me so che io non discrimino sulla base della razza… E non permetto che qualcuno sollevi un problema del genere quando so di aver fatto del mio meglio per non crearlo.

Ridurre il disagio e l’imbarazzo

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Una giovane alunna latino americana, Wikimedia commons.

Molti docenti e studenti della Wexler vivono in quartieri esclusivamente bianchi o afroamericani. Quindi, per molti c’è un iniziale senso di imbarazzo e di ansia nel menzionare apertamente un’appartenenza razziale o un’altra. Sostenere che queste non influenzino le relazioni ha il vantaggio di minimizzare le situazioni sociali potenzialmente imbarazzanti.

È anche questa una forma di elusione del conflitto, ma possiede una specificità, perché i sentimenti di disagio e imbarazzo possono, anche se non sempre, condurre al conflitto.

Pollock (2004) ha notato che pur riferendosi spesso alla appartenenza razziale quando descrivono i conflitti tra studenti, gli insegnanti da lui studiati non menzionavano mai la loro nel parlare dei loro conflitti con gli studenti. E per capire ciò che accade alla Wexler è utile considerare anche gli studi su un altro tipo di interazione spesso piuttosto problematica: quella tra individui che hanno disabilità visibili e quelli che non le hanno. In un’affascinante analisi, Davis (1961) sostiene che, per un soggetto non disabile, la vista di una persona con una disabilità evidente suscita una profonda incertezza su quale sia il comportamento appropriato da tenere. Una tensione che interferisce con la normale interazione. La disabilità tende a diventare il centro dell’attenzione influenzando il comportamento considerato appropriato. Davis sostiene che la reazione iniziale sia spesso una negazione fittizia della disabilità, una tendenza a fingere di ignorarne l’ esistenza, in modo da sollevare temporaneamente gli interagenti dalla necessità di affrontarne le implicazioni.

Esattamente come la disabilità, anche l’appartenenza a un gruppo sociale può provocare una risposta mirata solo a evitare l’imbarazzo. Lo stesso Davis (1961) però, nota che con il tempo questa finzione viene scartata perché, basata com’è su un’ovvia menzogna, è intrinsecamente instabile e nel lungo periodo disfunzionale. Allo stesso modo, la prospettiva daltonica può aver reso più semplice l’adeguamento iniziale della Wexler, ma col tempo tende a inibire lo sviluppo di relazioni positive tra studenti afroamericani e bianchi. Questi sono estremamente consapevoli delle tensioni legate alla loro appartenenza al gruppo, ma non possono affrontarle in modo diretto in un ambiente in cui la razza è un segreto pubblico. In breve, le norme che scoraggiano la discussione sulla razza riducono i potenziali conflitti, ma rendono poco costruttive le interazioni fra insegnanti e studenti e scoraggiano ogni discussione su questo argomento. Non è un elemento di poco conto, perché molte ricerche dimostrano che i dibattiti sulla razza tra studenti più o meno pieni di pregiudizi sono spesso efficaci, perché riducono i pregiudizi dei primi senza aumentarli nei secondi.

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Tre studenti durante l’intervallo, www.pxhere.com.

Aumentare la libertà d’azione degli educatori

La prospettiva daltonica semplifica la vita dello staff e aumenta il suo spazio di azione. In un’indagine interna sull’elezione, molto contestata, di un candidato al Consiglio Studentesco, un’insegnante bianca ha confessato di aver falsificato i conti in modo che un «bambino responsabile» (bianco) fosse dichiarato vincitore piuttosto che una «ragazza instabile» (afroamericana), che pure era stata più votata. L’insegnante sembrava imbarazzata, ma la sua preoccupazione riguardava solo l’aver violato il metodo democratico. Diceva di aver considerato i due bambini solo come individui e deciso che uno era più adatto dell’altro come rappresentante. Nonostante una lunga discussione, non ha ammesso di essere stata influenzata da loro colore. L’approccio daltonico aumenta la libertà d’azione degli educatori, perché azioni che appaiono accettabili se si pensa in modo daltonico, spesso lo sono molto meno in una prospettiva non daltonica.

Le ricerche di Snyder (1979) dimostrano che è più facile che le persone agiscano assecondando sentimenti di cui si vergognano quando hanno la possibilità di nascondere la loro reale motivazione rispetto a quando invece il loro comportamento non può essere spiegato in nessun altro modo. Nello specifico, hanno scoperto che gli individui evitavano le persone con disabilità fisiche quando tale evitamento poteva facilmente essere attribuito alla preferenza per un tipo di film. Tuttavia, quando la situazione non forniva questo tipo di giustificazione, la tendenza all’evitamento scompariva. Per analogia, ci si potrebbe aspettare che un ambiente daltonico liberi le persone la cui tendenza fondamentale è quella di discriminare.

La stragrande maggioranza degli insegnanti della Wexler   mantiene atteggiamenti fondamentalmente egualitari, e giustamente si sente insultata dall’idea di avere intenzionalmente discriminato i suoi studenti afroamericani. Eppure la ricerca dimostra che non è necessario essere razzisti alla vecchia maniera per discriminare gli afroamericani quando le condizioni sono favorevoli. Gaertner e Dovidio (2005) sostengono che un gran numero di bianchi liberali sono motivati a mantenere un’immagine di se stessi come individui egualitari e privi di pregiudizi razziali. Tuttavia, il desiderio di mantenere tale immagine va di pari passo con convinzioni che li predispongono a reagire negativamente verso gli afroamericani. Tipicamente, questa predisposizione è espressa in circostanze che non minacciano un concetto di sè egualitario.

Ignorare la realtà delle differenze

Un’ulteriore conseguenza del daltonismo è la predisposizione a ignorare o negare il potenziale delle differenze culturali tra bambini bianchi e afroamericani e a non vedere come tali differenze influenzino il loro modo di partecipare alla vita scolastica.

Ad esempio, il differente tasso di sospensione fra bambini bianchi e afro americani potrebbe derivare dalle differenze tra questi studenti in quella che Triandis chiama “cultura soggettiva”: i ragazzi afroamericani considerano certi comportamenti meno gravi e minacciosi, più giocosi e amichevoli, rispetto ai loro coetanei bianchi. La consapevolezza del significato differente di tali comportamenti potrebbe suggerire modi per ridurre l’altissimo tasso di sospensione dei ragazzi afroamericani.

Altre ricerche suggeriscono che le differenze culturali sono rilevanti per l’educazione e non si limitano a questa area. Per esempio, Kochman (1981) sostiene che gli studenti afroamericani e quelli bianchi usano in classe stili molto diversi di discussione, e che fraintendere il loro background culturale può condurre gli insegnanti a interpretare il loro coinvolgimento come una forma di aggressività. Ancora, la ricerca di Heath (1982) suggerisce che, tipicamente, gli insegnanti pongono nelle aule delle scuole elementari domande abbastanza simili a quelle poste quotidianamente nelle famiglie bianche medio borghesi, e sostanzialmente diverse da quelle rivolte ai bambini piccoli delle famiglie a basso reddito afro. Assumendo un approccio daltonico, quindi, gli insegnanti rinunciano a usare informazioni che potrebbero essere loro d’aiuto per strutturare meglio il materiale didattico e per migliorare l’interazione fra tutti i loro alunni.

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Uno studente americano durante un’assemblea, www.pxhere.com.

La capitalizzazione della diversità

C’erano modi meno sottili con cui la prospettiva daltonica funzionava a svantaggio degli studenti della Wexler, e più spesso degli afroamericani. Uno di questi riguarda la quantità di sforzi fatti per usare materiali didattici e approcci pedagogici che potevano riflettere gli interessi e le esperienze di vita degli studenti afroamericani, un approccio che è stato definito in molti modi, fra cui “insegnamento culturalmente reattivo” e “pedagogia culturalmente reattiva”.

La Wexler fa parte di un sistema scolastico che si sforza di proporre testi multiculturali. Inoltre, alcuni suoi insegnanti, per la maggior parte afroamericani, aveva particolare cura nel mettere in relazione il lavoro in classe con gli interessi in genere associati ai ragazzi afroamericani o a quelli bianchi.

La tendenza prevalente, tuttavia, non era quella di assicurarsi che i materiali riflettessero la diversità del corpo studentesco. Le nostre interviste suggerivano che gli insegnanti della Wexler non sentivano il bisogno di sviluppare materiali didattici capaci di riflettere la partecipazione degli afroamericani nella società. Ad esempio, un insegnante di matematica, interrogato sul fatto di aver adottato un manuale in cui tutti gli individui nelle illustrazioni sono bianchi, ha sostenuto che «la matematica è matematica» e che la questione dell’uso di materiali multiculturali era del tutto irrilevante nella sua materia. Ancor più sorprendentemente, affermazioni simili sono state fatte da insegnanti di letteratura, arte, lingue e scienze sociali. In una lezione sulla storia dell’antica Roma, ad esempio, un insegnante di scienze sociali ha presentato le varie classi nella società romana, inclusi i patrizi e i plebei, evitando però ogni riferimento agli schiavi per la preoccupazione di sollevare la questione della schiavitù in una scuola mista come la Wexler.

Un altro insegnante ha incluso George Washington Carver in una lista di grandi americani da cui gli studenti potevano scegliere per approfondire alcune lezioni, non menzionando affatto che egli fosse afroamericano per paura di imbattersi in problematiche razziali. In un mondo ideale non ci sarebbe alcun bisogno di accennare alla questione, perché gli studenti non avrebbero alcun preconcetto sul fatto che le persone famose siano generalmente bianche. Tuttavia, in una scuola in cui ho visto lo stupore di un bambino bianco nell’apprendere che Martin Luther King non era bianco, evidenziare quello che gli afroamericani hanno realizzato nella storia sarebbe a mio avviso una pratiche più che ragionevole.

Sebbene l’approccio daltonico abbia chiaramente molti svantaggi, è tuttavia necessario vigilare anche sull’approccio speculare, che consiste nel porre costantemente l’attenzione degli studenti sull’appartenenza razziale.

Ci sono diversi motivi per essere cauti nell’enfatizzazione tale appartenenza. In primo luogo, vi sono prove del fatto che apprezzare gli altri passa anche attrarverso il percepire una qualche somiglianza con loro. Lo sottolineano anche le ricerche su un fenomeno denominato “minaccia dello stereotipo”. Steele e Aronson (1995) hanno trovato che sollevare la questione della razza facendo in modo che gli studenti indichino la loro appartenenza prima di completare un compito può portare a una prestazione notevolmente diminuita da parte degli afroamericani, a causa degli stereotipi negativi sulla loro capacità. Inoltre, altre ricerche socio-psicologiche dimostrano che la categorizzazione delle persone in gruppi tende spesso a promuovere stereotipi e comportamenti distorti.

Conclusioni

Qual è, quindi, la posizione più efficace da tenere a scuola? Le questioni sono almeno tre. La prima è la necessità che il sistema educativo compia uno sforzo per tener conto delle diversità sociali nella pianificazione dei programmi di studio, nell’assunzione del personale e nella creazione di ambienti scolastici che promuovano ciò che Marcus (2002) definisce «sicurezza dell’identità». Tali sforzi potrebbero includere corsi di formazione sulla diversità e altre attività di supporto a una visione del mondo che accetta l’esistenza di prospettive diverse.

In secondo luogo, le scuole devono aiutare gli studenti e gli insegnanti a capire che i gruppi sono composti da individui con caratteristiche uniche, simili ma anche diverse di altri individui con lo stesso background. Questo dovrebbe ridurre la tendenza a pensare per stereotipi e favorire la tendenza a leggere l’appartenenza al gruppo come solo uno dei mille aspetti che caratterizzano gli individui. Infine, le scuole dovrebbero fornire agli studenti l’opportunità di costruire identità condivise significative e inclusive, come membri della scuola, della comunità e della nazione, che completino e integrino, piuttosto che sostituire o indebolire, la loro appartenenza a specifici gruppi etnici e razziali.


Janet Ward Schofield è professoressa di Psicologia presso il Centro di Ricerca e Sviluppo dell’Apprendimento dell’Università di Pittsburgh.

Tratto da: J. W. Schofield, The Colorblind Perspective in School: Causes and Consequences, in J. A. Banks e A. McGee Banks (a cura di), Multicultural Education. Issues and Perspectives, John Wiley & Sons, New York 2010. 

© Wiley & Sons

Traduzione e adattamento di Francesca Nicola

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