Uniti nella diversità

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Le lingue, l’intercultura, la traduzione a scuola. Da «La ricerca» #12, “Insegnare l’Europa”, una riflessione sul testo tradotto come opportunità spesso non colta.
L. Weiner, “From One Language To Another”, 1969, Amsterdam.

L’Unione Europea si è posta fin dal principio il problema della tutela delle lingue e del loro migliore utilizzo al fine di facilitare la comprensione reciproca tra i cittadini dei differenti stati nazionali. Il motto dell’Unione Europea è “Unita nella diversità”. Esso sta ad indicare che, attraverso di essa, gli europei operano unitamente per la pace e la prosperità e che le molte e diverse culture, tradizioni e lingue presenti in Europa costituiscono la ricchezza del continente.

L’UE, quindi, nel mondo globalizzato in cui domina la tendenza all’omologazione linguistica, non può accettare l’idea di una sola lingua franca (l’inglese) e cerca di favorire la salvaguardia delle cosiddette lingue minoritarie (ad esempio, in Italia esistono dodici lingue minoritarie riconosciute: albanese, greca, franco-provenzale, sarda, tedesca ecc.) e l’apprendimento delle lingue nazionali dei paesi confinanti, in modo da favorire la reciproca conoscenza tra popoli che storicamente hanno avuto rapporti conflittuali.
In questo contesto assume un ruolo fondamentale, accanto all’insegnamento delle lingue straniere, il più generale atteggiamento della scuola e degli insegnanti nei confronti del plurilinguismo, del multilinguismo e della traduzione – un fenomeno finora sottovalutato.

Una lingua più una lingua non fa intercultura 

Per quanto la letteratura italiana offra più di uno spunto per indagare e praticare il plurilinguismo e il multilinguismo, e nonostante la presenza di alunni di madrelingua non italiana nella grande maggioranza delle aule scolastiche, la scuola – che secondo i buoni propositi dei linguisti avrebbe dovuto già dagli anni Settanta del secolo scorso insegnare l’italiano standard almeno rispettando i diversi retroterra linguistici degli allievi – ha più di qualche difficoltà a far incontrare le lingue in uno stesso spazio nello stesso momento, a farle coagulare in una didattica che sia davvero pluri e multilingue, a creare spazi di coesistenza e di meticciamento, a riflettere sulle conseguenze dello spaesamento che inconsapevolmente è costretto a sperimentare ogni nuovo cittadino.

Lo studio delle lingue straniere è fino a oggi rimasto separato per compartimenti stagni: l’ora di italiano, l’ora di inglese e l’ora di francese, tedesco o spagnolo si susseguono senza mai incontrarsi. L’insegnamento dell’italiano, affidato a docenti laureati in Lettere che, almeno per la scuola secondaria, hanno conoscenze specifiche di letteratura italiana e di lingua e letteratura latina, oltre che di storia e di geografia, è focalizzato soprattutto sulla comprensione di testi letterari, come attestano i manuali scolastici e come richiesto dalle prove di italiano somministrate ogni anno obbligatoriamente dall’INVALSI agli studenti che sostengono l’esame di Stato al termine della scuola secondaria di primo grado. E anche quando i testi letterari sono scritti in una lingua diversa dall’italiano, nei libri di testo – e, quindi, si suppone, nella pratiche didattiche più diffuse – essi sono presentati direttamente in traduzione, senza peraltro che sia dato conto dell’identità del traduttore, tenuto spesso nascosto, come l’atto stesso del tradurre, agli allievi. In linea con le abitudini dei cittadini italiani, i quali usufruiscono quotidianamente di dosi massicce di opere dell’ingegno tradotte o doppiate, anche gli studenti sono avvezzi all’uso di libri di letteratura sostanzialmente monolingui, che non recano traccia degli incontri tra le lingue, non contengono opere con il testo a fronte e non affrontano il tema della traduzione.

Lo studio delle lingue straniere è fino a oggi rimasto separato per compartimenti stagni: l’ora di italiano, l’ora di inglese e l’ora di francese, tedesco o spagnolo si susseguono senza mai incontrarsi.D’altronde, anche quando si traduce, nella scuola italiana, si cerca di farlo in modo da negare all’alunno lo status di traduttore, come se si trattasse di un mero esercizio logico e senza tener conto della storicità dell’evento, quindi senza mettere a frutto le potenzialità educative di un incontro che a tutti gli effetti potremmo definire interculturale (si pensi all’utilizzo “neutro” della parafrasi, una traduzione intralinguistica, che anche quando è presente nei libri di testo non è mai accompagnata dal nome del “traduttore”).
Nella scuola secondaria di secondo grado italiana è stato di recente introdotto l’insegnamento integrato di contenuti e lingue, il cosiddetto CLIL (Content and Language Integrated Learning), che prevede, in estrema sintesi, l’insegnamento di una disciplina non linguistica (la matematica, la storia, ecc.) in una lingua straniera. Si tratta di un metodo dalle grandi potenzialità, poiché richiede a docenti delle diverse aree disciplinari di«ripensare il ruolo della lingua da loro utilizzata in classe, in particolare dell’italiano» (Lopriore, 2014, p. 11), che in qualche modo cessa di essere un elemento “naturale”, un mezzo di comunicazione neutro da usare in modo spontaneo, e diventa, o meglio può diventare, una delle culture e uno degli artefatti di cui dispongono gli abitanti di una scuola.
Tuttavia, l’introduzione di questa metodologia comporta il rischio di una banalizzazione del ruolo della lingua, utilizzata da madrelingua italiani che si sono laureati in Italia e che, con tutta probabilità, hanno appreso in Italia la lingua straniera (la cui padronanza è attestata da una certificazione di livello C1), ma che non necessariamente hanno quella sensibilità verso la lingua e la cultura di altri popoli (e del proprio) che può contribuire in modo concreto alla costruzione di una competenza interculturale «intesa come la capacità di ricostruire le diverse prospettive culturali all’interno dei contenuti culturali» (Ricci Garotti, 2014, p. 28).

Insomma: rimane il fatto che a scuola le lingue non si incontrano, non dialogano, non si mescolano. E la traduzione, che fa dell’incontro tra le lingue e della negoziazione dei significati una pratica quotidiana e un modo di vivere, è utilizzata principalmente al fine di occultare l’alterità, come esercizio linguistico basato sulla mobilitazione di competenze logiche, analitiche. Ma è vedendo gli altri – ci insegna l’approccio interculturale – che «vediamo quanto siamo strani “noi stessi”», e quindi «incominciamo a prendere in mano la nostra cultura come qualcosa di cui siamo responsabili» (Mantovani, 2004, p. 101).

L’insegna multilingue del Parlamento europeo a Bruxelles. © Getty.

Per una didattica del testo tradotto e della traduzione
La scuola italiana, dopo aver sviluppato un dibattito ricco e proficuo, sembra aver abbandonato la strada dell’educazione interculturale. Ciononostante, è necessario che la comunità professionale dei docenti dell’area linguistica, con il supporto del mondo della ricerca e dell’editoria, sia consapevole delle potenzialità educative della traduzione.

A scuola le lingue non si incontrano, non dialogano, non si mescolano. E la traduzione, che fa dell’incontro tra le lingue e della negoziazione dei significati una pratica quotidiana e un modo di vivere, è utilizzata principalmente al fine di occultare l’alterità.Per prima cosa, se pensiamo alla traduzione come «una delle forme principali di circolazione del sapere» (Benvenuti 2012, p. 149) possiamo riflettere sull’importanza della conoscenza delle politiche di traduzione, della loro storia e delle loro pratiche al fine di comprendere il funzionamento dei processi di selezione e di trasmissione nel tempo delle opere letterarie da parte di determinati gruppi sociali. Il filosofo Jean-Marie Schaeffer ha insistito sulla necessità di distinguere, nell’ambito degli studi letterari, una prospettiva descrittiva da quella propriamente normativa. Soprattutto, sostiene Schaeffer (2014), è fondamentale non confondere l’una con l’altra e, in particolare, acquisire consapevolezza, nella didattica e nella ricerca, del duplice e distinto ruolo della letteratura all’interno dei sistemi educativi: una funzione cognitiva, basata sulla fruizione delle opere e sulla loro “attivazione” nella mente dei singoli lettori, e una funzione sociale, basata su processi di selezione e di trasmissione delle opere.

In questa prospettiva assume un ruolo fondamentale lo studio delle politiche e delle pratiche della traduzione e del traduttore come mediatore culturale. E diventa necessario cominciare dal rendere visibile la pratica della traduzione, diffusissima nei libri scolastici, i quali fanno largo uso di opere delle diverse letterature del mondo, ma perlopiù invisibile. I testi tradotti che vengono utilizzati nell’ambito della didattica della letteratura hanno bisogno di essere presentati come risultato di un incontro tra due lingue e due poetiche, la poetica dell’autore e la poetica del traduttore (Buffoni 2007, p. 19). Solo in questo modo è possibile contrastare la tendenza all’omologazione linguistica e culturale promossa dall’industria dei contenuti dando l’illusione che ogni testo tradotto sia un originale (Venuti, 1995, p. 21).

Questo nascondimento subdolo, che danneggia il traduttore come intellettuale e come professionista, svela un’intenzione di assimilazione e integrazione linguistica e culturale che esclude di fatto il dialogo interculturale.

La traduzione, per diventare un atto consapevole di ospitalità (Prete, 1996), ha bisogno di svelare il traduttore e il suo progetto linguistico e culturale, di rendere visibile la differenza tra le due opere, le due lingue e le due culture messe in relazione dal traduttore. Rendere la traduzione visibile «è in primo luogo una scelta politica che sostiene l’intenzione di costruire il dialogo interculturale su basi non imperialiste» (Benvenuti, 2012, p. 151). Inoltre, dal momento in cui l’editoria mondiale è sempre più dominata dalla lingua inglese, “la traduzione può costituire una pratica concreta di difesa della diversità culturale dinanzi ai rischi della standardizzazione e del dominio crescente dell’inglese» (Benvenuti, 2012, p. 148).

Diventa necessario cominciare dal rendere visibile la pratica della traduzione, diffusissima nei libri scolastici, i quali fanno largo uso di opere delle diverse letterature del mondo, ma perlopiù invisibile.Come già affermato ed esemplificato altrove, sarebbe possibile, per esempio, inserire nella didattica della lingua e letteratura italiana la pratica del commento al testo tradotto (Giusti, 2014). Si tratta, in particolare, di tentare l’interpretazione del testo tradotto come «risultato di una interazione verbale con un modello straniero recepito criticamente a attivamente modificato» (Buffoni, 2007, p. 15), in modo tale da mettere i docenti e gli studenti in grado di toccare con mano – utilizzando metodi e strumenti cognitivi a loro noti, quali la comprensione del testo, la metrica o la narratologia, la storia letteraria – il dialogo interculturale tra due testi, e dunque il ruolo di mediatore culturale svolto dal traduttore.

Infine, allo scopo di simulare la condizione di spaesamento che si trova a sperimentare ogni traduttore quando si espone all’incontro con un’altra lingua, sarebbe opportuno favorire pratiche di traduzione che non siano strumentali all’apprendimento di una lingua straniera, ma che siano focalizzate sull’apprendimento della lingua d’arrivo, la madrelingua, e sull’osservazione dei cambiamenti che l’atto del tradurre comporta per il soggetto che traduce.

Se non è possibile “medicare” le ferite dello spaesamento, sia concesso almeno credere alla possibilità di attenuare i dolori – e le tentazioni di fuga – che le ferite ancora oggi possono provocare.

Bibliografia
Giuliana Benvenuti, Letterature e identità in traduzione, in Giuliana Benvenuti, Remo Ceserani, La letteratura nell’età globale, Il Mulino, Bologna, pp. 143-62
Franco Buffoni, Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e sull’essere tradotti, Interlinea, Novara 2007.
Simone Giusti, Commentare il testo tradotto. Il caso di Les Cloches di Apollinaire nella versione di Caproni, in «Autografo», n. 52, 2014, pp. 95-108
Lucilla Lopriore, CLIL: una lingua franca, in «La Ricerca», n. 6, giugno 2014, pp. 6-11.
Giuseppe Mantovani, Intercultura. È possibile evitare le guerre culturali?, Il Mulino, Bologna 2004.
Antonio Prete, L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Manni, Lecce 1996.
Federica Ricci Garotti, Aspetti e problemi della ricerca, in «La Ricerca», n. 6, giugno 2014, pp. 24-29
Jean-Marie Schaeffer, Piccola ecologia degli studi letterari. Come e perché studiare la letteratura?, traduzione di Marina Cavarretta, Loescher, Torino 2014; edizione originale Petite écologie des études littéraires. Pourquoi et comment étudier la littérature? di Jean-Marie Schaffer, Marchaisse, Paris 2011.
Lawrence Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, traduzione di Marina Guglielmi, Armando, Roma 1999; edizione originale The Translator’s Invisibility: A history of translation, Routledge, London 1995.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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