Il paradosso della trasparenza

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La richiesta ossessiva di trasparenza che si nota nella società occidentale, soprattutto in questi ultimi anni, nasce da un preconcetto di cui dovremmo disfarci. Sembra infatti che se si procede rendendo visibili gli atti compiuti, allora vi è onestà. La trasparenza sarebbe insomma una condizione sufficiente per decretare l’onestà. Si tratta di un errore ingenuo.

Esso si fonda sulla candida credenza che se qualcosa è manifesto, allora non ci possa essere spazio di manovra per il torbido. Non ci si rende invece conto che l’introduzione di nuove procedure trasparenti semplicemente sposta il problema in altra sede, cioè a monte. Naturalmente, di solito la trasparenza è un bene e non sto certo qui a dire il contrario, tuttavia si sbaglia quando la si invoca come panacea miracolosa.

Michela Marzano, nel suo Avere fiducia, osserva: «Più si cerca di rendere “trasparente” la gestione della cosa pubblica, più si solleva sospetto e sfiducia» (p. 76). In effetti, a voler spiegare tutto, si genera il sospetto che ci sia qualcosa che si vuole lasciar nascosto. Quello che si mostra, infatti, assume la forma di una scusa non richiesta (excusatio non petita…). Ma non è solo una questione di sospetto: la pretesa di una maggior trasparenza tende a creare un numero crescente di regole, che a loro volta creano nuovi spazi per l’iniquità. Inoltre, l’ostentata attuazione della trasparenza finisce per legittimare ciò che forse è stato deciso a monte, o forse è nato (loscamente?) sottobanco, ma è stato eseguito ipocritamente alla luce del sole. Insomma: oggi la trasparenza può essere un’arma usata per ottenere il consenso, attirando l’attenzione sulla procedura manifesta, mettendo in secondo piano i contenuti deliberati.

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La falsa retorica che oggi lascia intendere che la trasparenza sia un sigillo di autentica democraticità, oltretutto, rischia di portare danno alla democrazia stessa: quando ci accorgeremo che la trasparenza non è il rimedio che credevamo, la delusione verso questa finirà per colpire anche quella.

In genere, l’opacità non solo può non essere un male, ma anzi può essere addirittura opportuna. Certe procedure collegiali di deliberazione, per esempio, è bene che restino opache, perché in tal modo le recriminazioni sul deliberato non trovano appigli e pretesti e il soggetto collettivo della deliberazione si prende l’intera responsabilità, non scaricando su singoli suoi membri il peso della scelta collegiale. La deliberazione opaca rende più efficiente il sistema, rendendo più difficile la resistenza alle deliberazioni. Inoltre, essa consente un’opportuna separazione tra la procedura deliberativa e le dinamiche di cattura del consenso collettivo che potrebbero altrimenti interferire, inceppando o distorcendo anche gravemente la procedura deliberativa stessa.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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