Reale: Salvare la scuola nell’era digitale

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Quando si parla di scuola, ormai sempre più spesso, le espressioni usate inclinano al dramma. L’allarmismo sta diventando così ordinario che si rischia di non poter più destare alcun senso di urgenza. Anche il libro di Giovanni Reale, Salvare la scuola nell’era digitale, ha scelto questo registro impellente, cupo, preoccupato. Bisognerà decidere di moderare i toni, per ora però la scelta di Reale non si può biasimare, perché giustificata.

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In questi anni si sta assistendo a una campagna di opinione efficace e vincente nel motivare le scelte dei decisori della politica scolastica. Essa è fondata su ragioni quantomeno dubbie a favore di un utilizzo del digitale a scuola come panacea miracolosa. Il pamphlet di Giovanni Reale le si oppone con una critica lucida e serrata. C’era da aspettarsi che lo studioso della classicità greca, il grande esperto di Platone e Aristotele, non avrebbe preso le parti dei tecno-entusiasti, o come li chiama lui dei “sacerdoti dell’informatica”. Reale però non si assesta nemmeno su posizioni ideologicamente precluse alla tecnologia e anzi mantiene le distanze da chi lo fa. La sua posizione, certo conservatrice, non è per nulla luddista e ciò la rende difficile da archiviare con leggerezza. La si trova ben riassunta nel passo: “una buona scuola può trarre alcuni vantaggi dai computer, mentre una scuola mediocre non potrebbe trarre se non svantaggi, in quanto i rapporti fra docenti e studenti si assottiglierebbero ancora di più” (p. 61).

Sull’agenda digitale per la scuola il giudizio di Reale è estremamente severo: “In primo luogo, va detto che le disposizioni che si leggono sulla Gazzetta Ufficiale su una materia tanto delicata e complessa, formulate in modo non propositivo ma impositivo, sono non solo illiberali e antidemocratiche, ma si collocano in larga misura al di fuori della realtà” (p. 9). Ciò che Reale attacca frontalmente è il fatto che le scelte compiute siano affrettate e perentorie, anche se ora – mi viene da aggiungere – la corsa al digitale a scuola è un po’ meno affannata. Egli però non si limita a questo, ma cerca di mostrare che ciò che il legislatore è parso ritenere un bene prioritariamente urgente non è tale.

Tra gli argomenti per illustrare le ragioni per la prudenza egli ricorda che gli strumenti informatici sono molto costosi e delicati. Il costo iniziale si va infatti ad assommare a quelli di manutenzione e di ricambio, visto che la tecnologia digitale diventa presto obsoleta. Inoltre, essa è molto delicata e si rovina facilmente, costringendo a ulteriori spese per riparazioni e upgrade e, comunque, è soggetta a gravi danni collaterali come la perdita di informazioni, così come non avverrebbe su supporti tradizionali. La retorica del digitale come fonte di risparmio viene così smascherata: il digitale comporta semmai un esborso maggiore per lo Stato e per le famiglie. Queste considerazioni di Reale potrebbero essere anche superabili, se davvero le tecnologie offrissero un vantaggio decisivo nella formazione. In realtà però, argomenta Reale, non è così e, anzi, vi sono motivi per pensare che le tecnologie portino con sé una serie di problematiche di cui si dovrebbe essere avvertiti. L’utilizzo massivo degli strumenti informatici, sostiene Reale, riduce la concentrazione, la memoria, la capacità di argomentare, il senso critico, ha effetti negativi sulla fantasia e la creatività. Il mito che gli strumenti digitali favoriscano la socializzazione è attaccato con forza dall’autore il quale osserva che spesso, quando il rapporto nato in rete diventa effettiva esperienza nel mondo reale, esso termina rapidamente. Soprattutto è grave, osserva lo studioso, che la riflessione, l’introspezione e la spiritualità, siano sostituite dalla pratica digitale, caratterizzata da un frenetico susseguirsi di risposte veloci e reazioni immediate e da uno schiacciante sovraccarico di informazioni. Un progresso materiale, quello delle tecnologie informatiche, finisce in questo caso col provocare un regresso spirituale e la sapienza cede il passo all’informazione fine a se stessa. Inoltre, in una scuola digitale in cui l’insegnante venisse marginalizzato a favore della macchina, il rapporto umano tra discepolo e maestro verrebbe meno e questo costituirebbe una perdita grave e irrimediabile. Come si vede già dall’excursus qui svolto, il giudizio di Reale è articolato e impietoso nel denunciare i limiti e i pericoli della digitalizzazione di massa.

In certi passaggi, va notato, il testo di Reale non risulta convincente, come quando cita (in più occasioni) un passo di Clifford Stoll, almeno prima facie facendolo proprio: “Cinquanta minuti di lezione non possono venire liofilizzati in quindici minuti multimediali” (pp. 7, 61). In realtà ciò non è vero: a volte infatti non solo è possibile liofilizzare digitalmente, ma anzi vi è un grande vantaggio didattico nel farlo. Questo mostra come la tecnologia, se usata consapevolmente, può costituire effettivamente un bene. Tali limiti nel testo di Reale segnano in senso conservatore l’indirizzo del libro, ma non compromettono la solidità del discorso d’insieme che costituisce un monito col quale gli operatori della scuola e i decisori, a livello amministrativo e politico, dovrebbero fare i conti.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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