Stiamo diventando scortesi?

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La notizia è rimbalzata da un articolo del Wall Street Journal (What words tell us) a un pezzo di Michela Proietti apparso sul Corriere della sera (Perché non diciamo più per cortesia, 13.07.2013, p. 27). Due studiosi americani, Pelin e Selin Kesebir, hanno avuto modo di fare ricerche sul database di Google, che raccoglie 5 milioni di libri pubblicati nel mondo tra il 1500 e il 2008.

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Essi hanno osservato come è cambiato nel tempo l’uso delle parole, così che la ricorrenza di «coraggio» e «forza d’animo» è diminuita del 66 per cento, mentre quella di «gratitudine» e «apprezzamento» del 49. Ci si potrà chiedere cosa c’è di rilevante in questo. Il punto è che, più in generale, si è notato che le parole dell’ambito della cortesia sarebbero meno usate di un tempo, mentre lo sarebbero di più quelle di una società individualista, competitiva e poco educata. Infatti, scrive Proietti: «Parole come famiglia, collettivo, tribù, sono lentamente sfumate: il senso di comunità è stato sostituito da uno spirito competitivo che ci fa preferire i termini “auto”, “mio”, “personalizzata” oltre agli inglesismi performanti come “standout”»; e ancora: «Dietro alla scomparsa di alcuni termini e delle formule cortesi, “che fanno tanto azzimato”, c’è la logica efficientista». Insomma, la tesi della giornalista è che la cortesia starebbe scomparendo per la crisi del senso di comunità, per la diffusione dell’individualismo, per l’efficientismo competitivo. Bisogna ammettere che il discorso di Proietti ha un taglio fastidiosamente superficiale (se usassimo maggiormente il termine «tribù», davvero la giornalista crede che saremmo più sensibili al «senso di comunità»?), e tuttavia va riconosciuto che c’è qualcosa di vero in quanto dice, infatti lo avvertiamo nel quotidiano. L’involgarirsi del linguaggio pubblico è sotto gli occhi di tutti e si osa sempre di più. Per stare solo ai titoli della più recente pubblicistica di argomento filosofico, al riguardo mi viene in mente il libro di Aaron James, Stronzi. Un saggio filosofico, recensito da alcuni nomi eccelsi come se nulla fosse, ma che quanto a eleganza è degno erede del libro di H.G. Frankfurt, On Bullshit che, nel 2005, all’uscita, creò almeno qualche motto di imbarazzo. Mi scuso per le citazioni e faccio notare che anche Carlo M. Cipolla parlava di certa gentaglia, ma lo faceva con ben altro savoir-faire (cfr. Allegro ma non troppo). Fatto sta che la volgarità crea assuefazione e pur di farsi notare alcuni finiscono per dirla sempre più grossa (bisogna riconoscere però che la responsabilità spesso è più dell’editore che dell’autore). Con ciò, mi si fraintende se si pensa che sono qui a fustigare i cattivi costumi, che pure deploro, o a cantare un lirico, nostalgico e sognante: «com’era bello una volta, quando tutti erano educati e cortesi».

Il punto che mi pare interessante e urgente non è tanto annotare l’utilizzo o meno di certi termini, ma capire a cosa si riferiscano, in cosa consistano i concetti cui rimandano. Nel caso particolare, mi incuriosisce la domanda: che cosa è la cortesia? Dall’articolo del Corriere della sera sembra si tratti solo del proferire alcune formule o dell’usare certe parole. Mi vengono subito in mente «Buongiorno», «Buonasera», «Oh, mi scusi», «Voglia gradire un calice di rosso», «Mi perdoni, se la disturbo». Certo la cortesia riguarda il dire, ma è anche un modo di porsi, esprimibile in forma di regola: non trafficare col cellulare quando qualcuno ti parla, apri la portiera della macchina alla signora, non parlare con la bocca piena. Oltretutto, non è detto che usando meno la parola «gratitudine» si sia meno grati, perciò un uso limitato della parola, non rivela alcunché circa la prassi. Quanto poi al venire meno della parola «apprezzamento», potrebbe essere che essa è meno usata proprio per ragioni di… cortesia. Ebbene, sì. Il termine infatti evoca la parola «prezzo», ma dare prezzo a una persona o ai suoi atti può essere alla fine un disprezzarla per la sua dignità che, come si sa, non ha prezzo. Perciò una raffinata sensibilità cortese, per quanto detto, potrebbe proprio spingere a evitare la parola in certe situazioni, preferendole alternative come «di valore», «pregevole», «valido». Insomma, il mancato uso del lessico tipico della cortesia di per sé non indica affatto che siamo meno cortesi e non solo perché la cortesia spesso si mostra nel modo di dire, più che nel detto. Se dunque abbiamo dei motivi per pensare che siamo meno cortesi di un tempo, la cosa non si può giustificare solo per il minore uso di certi termini. Resta però ancora da capire cos’è la cortesia. Si tratta di un problema sul quale la letteratura accademica, scoprii qualche anno fa, è enorme e, in effetti, c’è ancora molto da dire e da scrivere. Spero che il lettore vorrà fare la cortesia di perdonarmi, se oggi lascio il quesito in sospeso: la questione merita di essere affrontata centralmente e ampiamente. Già la semplice possibilità che egli lo faccia mi dà comunque modo di illustrare a Michela Proietti che ci sono molte maniere per praticare la cortesia, alcune delle quali, poco appariscenti, restano nel non detto, eppure sono reali, pervasive e incidenti la quotidianità.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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