L’essere che rimane in ombra

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Di ombre si sono occupati, in primo luogo, i poeti. Dante, com’è noto, scrive: «Quando s’accorser ch’i’ non dava loco / per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, / mutar lor canto in un ‘Oh’ lungo e roco» (Purg., V, 25-27), ove l’ombra, a tema ma non detta nella terzina, diventa addirittura ragione di distinzione di Dante dalle altre «ombre» che popolano il luogo, così che questi si fa notare.

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Anche i cantanti se ne sono ispirati (ad esempio, Supertramp, Shadow Song; The Police, Shadows in the rain; Teitur, Shade of Shadow). Altre forme espressive usano l’ombra: proprio in questi giorni si sta imponendo in rete quella commovente performance proposta in Britain’s Got Talent dagli Attraction (Shadow Dance Group), qui il video. I filosofi non hanno mancato di dire la loro con Roberto Casati. A lui si deve un lavoro acuto e originale il cui titolo, La scoperta dell’ombra, esemplifica come con le ombre sia facile giocare di arguzia. In effetti le ombre sono enti intriganti: si direbbe che innegabilmente ci sono, ma al contempo hanno un’ontologia bizzarra. Insomma, sembrano essere quanto ci sia di più impermanente (non a caso sono usate come tipica metafora dell’umano) e strano (p.e. se un oggetto si sovrappone a un altro abbiamo due oggetti, ma se un’ombra si sovrappone a un’altra, quante ombre abbiamo?).

Che le ombre siano importanti lo intuiamo al più tardi da bambini, alle prime lezioni di disegno: senza ombre, gli oggetti sono privi di spessore, sembrano fluttuare staccati dall’ambiente, mancano di consistenza. Senza ombre gli enti si smaterializzano in schemi formali. Con ombre sbagliate invece gli oggetti diventano implausibili, paradossali. Le ombre rendono il nostro mondo ricco, sfumato e piacevolmente complesso. Tante certezze sembrano però svanire alla domanda: cos’è un’ombra?

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In un mondo il cui inventario raccogliesse la sola collezione degli oggetti fisici, le ombre non sembrerebbero trovare posto. Esse non sembrano oggetti fisici, pur avendo fisicità (si estendono nello spazio e, di solito, durano nel tempo). Sono allora proprietà degli oggetti? Anche questa soluzione sembra però preclusa: l’essere ombreggiato non è una qualità dell’oggetto, così come lo è invece, poniamo, il suo essere rosso. Si direbbe allora che le ombre sono una proprietà relazionale: sono una proprietà dell’oggetto come esito della relazione tra esso e un fascio di luce. Oggetto e fascio sono allora condizioni necessarie e sufficienti, prese insieme e in certi particolari modi, per il darsi di ombre, verrebbe da dire. In un’ontologia come collezione di oggetti fisici, il fascio di luce non trova però cittadinanza. Non si può dunque parlare di relazione, non essendoci il secondo relato. Un approccio strettamente fisicalista, come si vede, è in difficoltà a dare conto della luce e dell’ombra. Una fenomenologia della percezione riesce invece ove il fisicalismo pare fallire, ma al prezzo di un’ontologia meno parsimoniosa, se questo è un limite. Il rischio però più serio di una tale ontologia consiste nel riportare l’ombra alla soggettività della prospettiva dell’osservatore il cui punto di vista, del resto, gioca innegabilmente un ruolo chiave nell’esperienza dell’ombra. Se l’ombra ha una consistenza ontologica fondata sulla percezione del soggetto che la coglie, allora cosa c’è di oggettivo nelle ombre, se mai si può parlare di oggettività dell’ombra? In fondo possiamo misurare le ombre, possiamo descriverle spesso con notevole precisione. Gli astronomi da sempre hanno dedicato una parte importante della loro attività a prevederle (si pensi alle fasi lunari). Dunque, da dove trae origine tale oggettività?

Sembrerebbe che la soluzione consista, dal lato della soggettività, nel riconoscere che percepiamo le ombre e, dall’altro lato, quello dell’approccio delle scienze naturali, nel riconoscere gradi e modalità diversi di illuminazione delle superfici. Quella che ci sembra essere l’oggettività dell’ombra in questa seconda prospettiva sarebbe l’oggettività delle leggi circa la modalità e il grado di illuminazione degli oggetti. Sta poi agli ontologi decidere se questo comporta l’ammissione di proprietà estrinseche distinte dalle proprietà intrinseche (il rosso, nell’esempio fatto sopra), ovvero di proprietà relazionali relative a come una data quantità di fotoni si comporta con una data superficie.

L’impostazione scientifica, in ultima analisi, sembra negare l’essere dell’ombra. L’ombra, detto altrimenti, pare essere solo nell’occhio che guarda. Se ne conclude che parlare di ombra è una scorciatoia per esprimere cose che dire sarebbe altrimenti troppo lungo e noioso. Tra queste vi è che con l’ombra si esprime la poeticità del quotidiano, con la sua presenza ora rassicurante, ora minacciosa. Vediamo dunque che, ai piedi della poesia, l’ombra trova quell’accoglienza che sembra esserle negata dalla luce della scienza: l’essere nell’ombra è l’essere del dire.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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