Il paradosso della donazione #1

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Quando doniamo, si direbbe che avviene qualcosa di strano: compiamo un atto gratuito eppure al contempo non agiamo «per niente». Questa situazione ha portato alla formulazione di un paradosso piuttosto intrigante.

dono

Vorrei continuare qui a discutere i paradossi sociali (vedi i precedenti, qui e qui), così affascinanti e ancora poco conosciuti dai più. Uno dei più interessanti, a mio parere, riguarda la donazione ed è così drastico da mettere in discussione addirittura la stessa esistenza di effettivi atti di donazione. A volte in filosofia, riflettendo, si finisce col far scomparire quello che per il senso comune è evidente. Alcuni filosofi sociali oggi riescono a fare ciò che era riuscito brillantemente ad alcuni filosofi antichi: si pensi a Parmenide, che faceva scomparire il divenire. Anche oggi, però, come allora, quello che vien fatto scomparire dai giocolieri della parola, lo si può far ricomparire col «duro lavoro del concetto». Il bello è seguire i passaggi, per scorgere la magia.

Sembra che vi siano solo due possibili alternative: o la donazione è un atto interessato, oppure non lo è. Se la donazione è interessata, manca di quella gratuità che pare una sua caratteristica essenziale. Dunque non è una donazione e sembra che il primo corno sia una strada chiusa che rimanda al secondo, per trovare una via praticabile. Se però la donazione è disinteressata, come parrebbe effettivamente, sembra che manchi di quella ragione d’essere che la rende un atto sensato. Il dono non è mai «per niente». Anche quando ci si vuole liberare di qualcosa, e perciò in senso stretto non si dona, lo si fa per qualche ragione, per esempio perché quella cosa ingombra. Quindi si dà agli altri sempre per una ragione. Se dunque si compie una donazione, lo si fa per qualche motivo, magari per fare piacere all’altro. Ma allora l’atto è interessato, perché la ragione circostanzia un qualche interesse. Si rientra così nel primo corno che però avevamo scartato.

Il teorico del dono si trova dunque di fronte a un dilemma, ciascun corno del quale pare rimandare all’altro in un circolo che fa girare la testa e si chiude senza lasciare scampo. Derrida ne ha concluso drasticamente che allora non ci sono doni. «Al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono: né al donatario, né al donatore. Esso può essere dono come dono solo non essendo presente come dono. Né all’uno né all’altro. Se l’altro lo percepisce, se lo conserva come dono, il dono si annulla. Ma nemmeno colui che dona deve vederlo o saperlo, altrimenti comincia, fin dall’inizio, fin dal momento in cui ha l’intenzione di donare, a ripagarsi di un riconoscimento simbolico, a felicitarsi, ad approvarsi, a gratificarsi, a congratularsi, a restituirsi simbolicamente il valore di ciò che si appresta a donare» (J. Derrida, Donner le temps, Paris, Éditions Galilée, 1991; trad. it. di G. Berto, Donare il tempo, Milano, Cortina, 1996, p. 16). Si potrebbe parlare di dono, stando a Derrida, solo quando nemmeno il donatario si rende conto di donare. Ma allora che dono è, se nessuno se ne rende conto? Insomma per magia Derrida riesce a far scomparire il dono. La prossima settimana proverò a farlo ricomparire.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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