Mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto

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«Mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività». Queste celebri parole di Goethe sono state riprese e anzi fatte proprie da Nietzsche che, nella seconda delle Considerazioni inattuali, pubblicata nel 1874, rifletteva sull’utilità e il danno della storia per la vita.
Un famoso ritratto di Goethe interdetto (J. K. Stieler, 1828).

Che Nietzsche potesse apprezzare questo “pugno allo stomaco” non stupisce, e anzi c’era da aspettarselo da quel pensatore di rottura che amava presentarsi come dinamite e qualificarsi come un “filosofo col martello”. Senza dubbio la provocazione del grande scrittore non può lasciare indifferente chi si dedica all’istruzione, e magari addirittura lavora per il Ministero dell’Istruzione. Bisogna allora farci i conti, ma con serietà, senza andare per facili scorciatoie.

La prima mossa che viene naturale, per addomesticare il passo di Goethe, è di puntare sul “soltanto”, e perciò ci si dice: «Un po’ di istruzione può anche andar bene, purché non ci sia solo quella». Si tratta di una difesa rassicurante, che vuole poter abbracciare Goethe anche quando morde e perciò lo cambia, lo rende inoffensivo. Essa non ha il coraggio di accogliere fino in fondo la provocazione, radicale, perentoria, spietata, forse crudele. Si tratta dell’approccio piccino di chi ha bisogno di sonni tranquilli e ama smussare le asperità, ma non rende giustizia al testo, al suo tono sprezzante, netto, e però complesso. La mera istruzione è rifiutata da Goethe, senza appello, punto.

Ancora tramortiti dall’odio di Goethe, sentiamo levare la voce dei cultori della didattica per competenze, che la sanno lunga, gongolano e cercano di arruolare il poeta tedesco. Si tratta di abbandonare i metodi tradizionali – essi dicono – proprio quelli che fanno dell’insegnamento il trito riversare contenuti nel contenitore-mente del discente, soggetto passivo, mero ricettacolo di un meccanico travaso. Oggi sappiamo che questo non funziona, dicono. Si tratta piuttosto di formare competenze, le competenze sono pratica, attività, vita, cioè quello che vorrebbe Goethe, dicono. Ma una competenza non è di per sé pratica ed è quantomeno dubbio che un’attività retta da acquisita competenza sia perciò stesso vita. Goethe parla di altro.

Anche Nietzsche ci pensa su.

Ancora smarriti, vediamo avanzare la schiera dei cultori di una specie di attivismo pedagogico, oggi sempre più impegnati a lanciare una didattica che metta in movimento gli studenti e che offra occasioni per uscire dall’aula, magari per passare ore in azienda. Per loro l’istruzione è roba vecchia, superata, conta la formazione e questa si acquisisce in contesti di vita regolati e strutturati. «Ecco l’attività vivificata che Goethe auspicava!», dicono sognanti. Sono orgogliosi di avere obbligato a questo milioni di studenti per centinaia di ore ciascuno. Una tragedia. Non capiscono cosa sia la cultura, quella che si acquisisce leggendo e studiando e che può essere la più alta esperienza di vita e di gioia intellettuale, perché non ne capiscono il senso, questa è la tragedia.

Le parole di Goethe, che ci avevano spaventato, di fronte a queste meschinità, ottusità e vano attivismo, sembrano ora un faro che guida verso porto sicuro. Quand’è che si è istruiti e vivificati nel proprio agire, nel proprio essere? Non quando ci riversano addosso contenuti che loro, chiunque essi siano, ritengono importanti; non quando ci addestrano a fare o dire cose; non quando ci ammaestrano inserendoci in contesti non nostri e ci “socializzano”, bensì quando destano la nostra domanda di uomini; quando toccano il nostro cuore e risvegliano in noi il gusto del bello; quando ci pongono in contatto con qualcosa di importante per la nostra vita, mettendoci alla prova e chiamandoci a rispondere; quando risvegliano il nostro intelletto e lo provocano, lo sfidano a esplorare il mondo e il pensiero, e ci incitano a dare di più, a giungere lì dove non avremmo mai sognato di poter arrivare; quando ci fanno amare la grandezza di chi sa abbracciare la verità, anche quando scomoda.
Questo è l’agire nella scuola che è vita piena, anche quando siamo nel chiuso di una stanza, seduti su una sedia, forse «solo» rileggendo e riflettendo su un passo provocatorio di Goethe citato da Nietzsche. Per capire quel testo si deve dunque guardare a tutto questo. Il resto, le promozioni della cultura, le didattiche per competenze, le attività alternative alla didattica vengono dopo, molto dopo, rispetto al verso cosa puntare. Deve essere così perché gli studenti possano amare il loro percorso scolastico, perché ne siano vivificati, ora.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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