Il paradosso della stima

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Una formulazione del paradosso della stima si ritrova nel libro di Gloria Origgi “La reputazione. Chi dice che cosa di chi” (Università Bocconi Editore, Milano 2016): «sappiamo bene che gli sforzi per mostrarsi degni di stima, se sono troppo esplicitamente volti all’ottenimento di questo “bene”, possono rivelarsi controproducenti» (p. 119). Ci sono insomma cose che non vanno ricercate per se stesse, ma devono e spesso non possono che essere conseguite come esito non intenzionato, gratuito, del proprio agire.

Ciò avviene in analogia ad altri casi: cercare il piacere per il piacere nausea; più ci si impegna a lasciarsi andare per prendere sonno, meno ci si riesce; se si persegue la spontaneità, si finisce per adottare comportamenti palesemente studiati. Sul piano religioso, a cercare la salvezza si rischia la dannazione, perché non si agisce per il bene, ma egoisticamente, per mero interesse, sia pur spirituale. Sul piano etico, a cercare di essere buoni e retti si passa per presuntuosi e talvolta farisei o, se ci ritengono furbi, manipolatori e, se ingenui, babbei.

Il conseguimento della stima segue una dinamica analoga, così che più si agisce per ottenerla, più si rischia di comprometterne il conseguimento e, d’altra parte, a disprezzarla, si imbocca la strada dell’emarginazione o si abbraccia lo stile punk, il che poi è lo stesso, essendo questo il marchio di un’autoemarginazione arrabbiata che comunque ha creato una controcultura e nuove forme di aggregazione.

Sempre Origgi osserva: «la ricerca volontaria della stima può trasformarsi in ambizione, amor proprio, insomma in sentimenti che non consideriamo degni di ammirazione» (p. 119). Del resto, il filosofo e sociologo norvegese Jon Elster, che si è dedicato allo studio di questo genere di attività paradossalmente fallimentari, acutamente osserva: «Nulla fa meno impressione che cercare di impressionare gli altri» (Sour Grapes, Cambridge 2016, p. 66).
A chi fosse in cerca di esemplificazioni, basterà ricordare la figura del parvenu, che si affanna a guadagnare la distinzione che la sua nuova classe sociale gli dovrebbe garantire, ma più si impegna, più tradisce coi suoi modi gretti il suo non essere membro autentico di quella classe; più egli cerca distinzione e riconoscimento, più ottiene disprezzo e rifiuto.

E dunque, come venirne fuori? Se andare in una direzione non porta alla meta, ma nemmeno l’imboccarne l’alternativa pare offrire miglior fortuna, quale potrà mai essere la soluzione?

A rivedere le scene iniziali di Schindler’s list (1993), il film-capolavoro di Steven Spielberg su Oskar Schindler, sembrerebbe che la reputazione vada perseguita intenzionalmente, e che questo porti al successo negli affari.
Stando alla storia raccontata da Spielberg, Schindler costruì la sua con grande cura, investendovi molto denaro, studiando come presentarsi, con chi far associare il proprio nome, con chi documentare una relazione amicale (cioè attraverso fotografie, che lo ritraggono con nazisti potenti). La buona reputazione così perseguita gli fece ottenere dal nulla un alloggio di lusso e un’attività imprenditoriale di tutto rispetto.
Naturalmente la sua storia non parla davvero di questo, ma della sua battaglia per salvare le vite umane degli ebrei che fece lavorare nella sua impresa. Qui però ci interessa la parte sulla reputazione, la grande premessa della sua storia. Essa sembra smentire il paradosso della stima. Schindler cercò di impressionare e ci riuscì, al punto che su queste basi poté salvare molti ebrei, in tempi in cui altri fallirono. Come conciliare la sua storia col nostro paradosso?

Schindler riuscì nel suo gioco, rischiando. Proprio il fatto che il suo era un azzardo, rendeva credibile ciò che egli cercava di spacciare come vero ai nazisti, ossia la sua vicinanza alla loro causa, la sua amicizia verso le loro persone.
In tempi nei quali vi è il collasso sociale di gruppi potenti, si aprono varchi in cui ci si può inserire. Il nazismo era pronto ad appoggiare, senza farsi troppe domande, tutti coloro che lo appoggiavano. Giocando bene le proprie carte, ciò poteva portare molto in alto. L’azzardo di Schindler funzionò, anche perché i nazisti volevano lasciarsi impressionare.
Perciò, il caveat di Elster, che vale per quando una ragionevole diffidenza rende capaci di smascherare gli azzardi, qui resta lettera morta.

Insomma, il caso di Schindler non è un controesempio che mina il paradosso della stima, ma mostra piuttosto cosa può succedere in tempi straordinari, quando una società si capovolge, quando si può solo sperare che quelli che riescono a sfruttare i meccanismi per una rapida ascesa sociale conservino un cuore buono.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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