Emozioni, normatività e vita sociale

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Mentre scrivo, la sera del 7 giugno, è ancora in corso, presso l’Università “Vita-Salute San Raffaele”, la tre giorni della sesta edizione della Spring School of Philosophy (6-8 giugno), presso l’aula “Aristotele” dell’ateneo milanese. Il tema, quest’anno, è vasto e affascinante: “Emotions, Normativity and Social Life”.

Quello del San Raffaele è, a mio parere, uno degli appuntamenti filosofici più interessanti nel panorama italiano, per la varietà dei contributi offerti, per la loro qualità e per la varia provenienza disciplinare (p.e. esperti di antropologia filosofica, filosofi del linguaggio, filosofi morali, filosofi sociali, psicologi sociali) e accademica degli studiosi (per fare solo qualche esempio, University of Southern California, University of Barcelona, University of Edinburgh, University of Warwick, Columbia University, Oxford University).

Ho potuto partecipare alle prime due giornate di lavoro, seguendo il programma molto intenso di 15 relazioni (a dire il vero 14, perché l’altra era la mia). Vorrei lasciare qui alcuni appunti, note che non pretendono alcuna completezza. Si tratta di considerazioni impressionistiche che cercano di indicare quali sono alcune delle più avanzate questioni che vengono oggi affrontate nel mondo accademico sui temi del Convegno, nell’attesa che si pubblichino gli atti e vengano messi online i video su YouTube. In conclusione dirò un paio di cose sui compiti della scuola.

Il pomeriggio della giornata iniziale (il Convegno è cominciato lunedì, dopo le 14.00) era dedicato fondamentalmente al tema degli insulti. Sì proprio così: insulti! In passato, mi sono occupato di cortesia e di donazione, perciò sapevo quanto ampia fosse la letteratura su queste due materie, in particolare nel mondo anglosassone. Mi era sfuggito che da una decina d’anni, a quanto pare, nel mondo anglosassone si è cominciato ad approfondire anche “il lato oscuro” dell’interazione linguistica, così che sono fioriti molti lavori sugli insulti e sulle espressioni ingiuriose in genere. Perciò, se si vuole entrare nel dibattito ci si deve mettere al passo, affrontando una letteratura ormai già molto ampia, complessa e spesso piuttosto raffinata che affronta questioni linguistiche, semantiche, sociologiche.

Cosa rende un insulto quello che è? Si tratta di un atto sociale? È un performativo? Quali sono le sue caratteristiche formali? Perché si insulta e quali ne sono le conseguenze? Almeno le domande non tecniche possono forse sembrare facili, ma non è così. Se, ad esempio, è vero che l’insulto è una forma di sdegno verso qualcuno, è pur vero che non ogni atteggiamento di sdegno porta all’insulto.

Dunque a cosa servono gli insulti? La tesi di Michaela Popa-Wyatt, ad esempio, è che l’insulto serva a creare uno sbilanciamento tra il potere del parlante e quello del destinatario dell’insulto, così che il secondo viene delegittimato, messo al bando, ridotto al silenzio. Ma davvero è solo questo? Mi ha molto sorpreso la notizia data da Robin Jeshion che il Racial Slur Database raccoglie ben 560 parole insolenti verso i neri e 53 verso i cinesi. Tale ricchezza linguistica (se così si può dire) dipende dal fatto che il mondo anglosassone, diversamente ad esempio da quello italiano, è segnato da comunità in cui il contatto interraziale evidentemente è terreno di conflitti e la lingua ne tiene le tracce. Si tratta di uno scenario che anche l’Italia e l’Europa potrebbero ospitare nei prossimi anni, quando le comunità di stranieri, oggi piuttosto compatte e isolate, cominceranno a sfilacciarsi e a interagire più ampiamente con i gruppi autoctoni.

L’ultima relazione del lunedì è stata tenuta da Laura Caponetto sul silenziare le donne attraverso la pornografia. A quanto pare, ci sono degli studi psicologici che mostrano come i maschi, visti certi film pornografici, sono più propensi a ritenere che una donna che nega la propria disponibilità al rapporto sessuale dicendo “no”  stia intendendo in realtà “sì”. In questo senso, concludono gli autori a cui la relatrice ha fatto riferimento, la pornografia silenzierebbe le donne, perché indipendentemente dal loro dire, la controparte prenderebbe il diniego per assenso, con conseguenze sociali gravi ed esistenziali-personali tragiche.

Il martedì è stato dedicato a parecchie questioni fra loro disparate: dall’affettività distribuita all’autismo e il rapporto tra empatia e ragionamento morale, dalla depressione studiata con un approccio gadameriano fino all’autoinganno e all’etica della cura.
Di particolare importanza, a mio parere, sono state le relazioni di Thomas Fuchs e di Roberta De Monticelli, che hanno, rispettivamente, aperto e chiuso la giornata. La prima ha affrontato il tema dell’intercorporalità e dell’interaffectività. Fuchs ha sviluppato un modello di interazione emotiva corporea e intersoggettiva, mostrando come le emozioni non possano essere trattate meramente come una “cosa che avviene nella testa”. Esse infatti avvengono “nel corpo”.
Questo è tanto vero che, ad esempio, ci sono esperimenti che mostrano come il botox usato per togliere le rughe della fronte ha un sorprendente effetto antidepressivo, perché il fatto stesso di corrugare la fronte pare generare o almeno favorire pensieri depressivi, ma col botox si impedisce che ciò avvenga. La seconda relazione riguardava le emozioni e i valori.
Con una serie di esemplificazioni suggestive e discutendo la complessa letteratura sull’argomento, De Monticelli ha poi cercato di mostrare che vi sono proprietà assiologiche nella realtà per cui si può appropriatamente parlare, ad esempio, di una camminata stanca, di una ansiosa o di una goffa (chi non ci crede, si faccia un giro qui).

La due giorni mi ha fatto riflettere, una volta di più, sul fatto che mentre al liceo – giustamente – si insegnano Platone e Aristotele, all’Università si parla di tutt’altro (almeno nei convegni più avanzati). Dunque? Lasciamo stare Aristotele e parliamo di… insulti? Dovremmo inseguire le mode accademiche?
Non credo che il compito della formazione liceale sia di essere sulla cresta dell’onda, quanto piuttosto di fornire agli allievi gli strumenti concettuali, argomentativi e le basi culturali per affrontare ben attrezzati ciò su cui l’Accademia oggi e domani deciderà di buttarsi. Chi poi non sceglierà filosofia (certo la stragrande maggioranza) potrà trarre vantaggi notevoli da quel baglio anche per altri corsi e, comunque, per la propria formazione generale. Nel frattempo mi pare bene per i docenti, almeno di tanto in tanto, dare un’occhiata a quanto succede lì dove la tavola vola sul pelo dell’acqua.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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