Free State of Jones

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Ci sono piccoli episodi della storia che, seppur marginali rispetto ai grandi eventi, assumono un significato simbolico così importante da lasciare un segno indelebile. È questo il caso della vicenda raccontata dal film Free State of Jones firmato da Gary Ross.

Il regista americano ha una filmografia piuttosto discontinua: se ricordiamo Pleasantville (1998) dimentichiamo con piacere Seabiscuit – Un mito senza tempo (2003) e Hunger Games (2012). Nel suo ultimo lungometraggio affronta il periodo della Guerra civile americana attraverso la storia personale di Newton Knight, un uomo coraggioso e anticonformista.

Ross ha lavorato per oltre dieci anni alla preparazione dell’opera, assecondando la sua passione di studioso di storia e politica americana. Ricostruire la vita di Newton Knight ha richiesto lunghe ricerche in archivi storici, la consulenza di docenti universitari di Storia americana e la raccolta di testimonianze dirette dei discendenti dei protagonisti. Un interminabile e faticoso lavoro d’analisi e di rielaborazione delle fonti che alla fine è sfociato nella stesura di una sceneggiatura originale.

Nel 1863 i soldati dell’Unione e degli stati confederati muoiono da oltre due anni sui campi di battaglia senza capirne il vero motivo. La Guerra civile è un conflitto di grandi interessi economici, che non riguarda certo i poveracci arruolati e gettati in prima linea. Newton Knight fa il barelliere nell’esercito del Sud ed è stanco di raccogliere morti e feriti, mentre i figli dei ricchi proprietari terrieri del Sud restano a casa. Una legge, infatti, permetteva di esentare dalla leva obbligatoria un figlio ogni venti schiavi di proprietà. Insomma, la solita storia: ci sono pochi ricchi privilegiati che le guerre le dichiarano e tanti poveri disperati che le combattono.

Quando il suo giovane nipote muore in battaglia, Newton decide che di quell’assurda guerra ne ha abbastanza. Diserta e si nasconde tra le paludi del Mississippi, dove con un gruppo di schiavi fuggiti dalle piantagioni e altri disertori fonda una piccola comunità di ribelli e fuorilegge. La banda capitanata da Knight abbraccia gli ideali degli Stati del Nord e nasce così una piccola enclave che combatte contro la schiavitù e il razzismo. Nello “Stato Libero di Jones” tutti gli uomini sono liberi e uguali, nessuno deve arricchirsi grazie allo sfruttamento di un altro essere umano e le unioni miste sono la normalità, a partire proprio da Newton e dalla sua compagna.

Cosa rimane alla fine della Guerra civile dell’esperienza della piccola comunità di Jones? Poco o nulla. L’eredità di Newton Knight naufraga in un contesto sociale che si salda al passato e ripropone lo sfruttamento e la segregazione dei neri in altre forme, più o meno legali. Gli stati del Sud rivendicano la loro cultura schiavista, con il rigurgito violento del Ku Klux Klan e con uno strisciante razzismo.
La struttura narrativa del film, che procede attraverso un gioco di flash-forwards tra i campi di battaglia e un’aula di tribunale della fine degli anni ’40, dove si celebra un assurdo processo a sfondo razzista, sembra testimoniare che la storia ha camminato a ritroso. Il sentire comune dell’America più reazionaria e conformista ha attraversato i decenni senza mutare, e dopo quasi un secolo, gli ideali dello Stato Libero di Jones sembrano lontanissimi. Le istituzioni, le leggi e la morale comune sono ferme al 1861, alle piantagioni di cotone e alla divisione degli uomini in padroni e schiavi, in bianchi e negri. Il profondo Sud degli States non è cambiato e non vuole cambiare. L’esperienza della contea di Jones non è stata il principio di un nuovo ordine sociale, ma un’anomalia da reprimere e ricacciare nell’oblio.

Come spesso accade, la visione di un film ha il potere di far vibrare i nostri ricordi o di indicarci suggestivi rimandi alla realtà.
Tornano così in mente le immagini di Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1989) di Alan Parker, ambientato nel periodo degli anni ’60, a testimoniare che il razzismo è rimasto per decenni una ferita aperta e ancora oggi un problema irrisolto.
Così come è ancora viva la commozione per la morte di Muhammad Ali, il più grande pugile di tutti i tempi. Un uomo che ha gettato la medaglia olimpica conquistata a Roma nel 1960 nel fiume Ohio, dopo essere stato cacciato da un locale di Louisville per il colore della sua pelle. Sul ring ha preso a pugni Sonny Liston, Floyd Patterson, Joe Frazier, George Foreman e nella vita ha combattuto con la stessa forza contro il razzismo. Giusto per restare in tema di guerra, ecco cosa pensava Alì ai tempi del conflitto con il Vietnam:

I miei nemici sono gli uomini bianchi, non i Vietcong. Non ho mai litigato con questi Vietcong. I veri nemici della mia gente sono qui. La mia coscienza non mi lascerà sparare a un mio fratello, o a persone dalla pelle più scura, ai poveri, agli affamati, per la grande e potente America. E sparare per cosa? I Vietcong non mi hanno mai chiamato negro.

Per le stesse ragioni diventerà Muhammad Ali:

Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali, un nome libero.

Ma tornando a Free State of Jones, dobbiamo annotare che il film di Ross tende a cedere a una visione un po’ schematizzata e manichea. Spesso rinuncia alla complessità e alla profondità d’analisi per semplificare la narrazione e favorire la costruzione drammaturgica della figura di Newton Knight. Il protagonista finisce così per incarnare lo stereotipo dell’eroe e del paladino, tanto caro al cinema americano a partire dal genere western. Se superiamo quest’approccio un po’ banalmente iconografico, da foresta di Sherwood, potremo però apprezzare le parti più interessanti del film. L’opera assume i toni di una lucida denuncia della Guerra Civile Americana come ennesimo conflitto economico scaricato sulla pelle dei più poveri. La rappresentazione disincantata e realistica della guerra, nei suoi aspetti umani più drammatici e in quelli più spregiudicatamente affaristici, speculativi e politici, è sicuramente ben riuscita ed efficace.
Tuttavia, anche qui il discorso non è nuovo.
Ricordate le sagge parole del bandito Miranda quando parlava di guerra e rivoluzione nel capolavoro di Sergio Leone Giù la testa (1971)?

Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore non parlarmi tu di rivoluzione. Lo so benissimo cosa sono e come cominciano. C’è qualcuno che sa leggere i libri, che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: Oh, oh… è venuto il momento di cambiare tutto… e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo e parlano, parlano. E mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Quindi per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E, porca troia, lo sai cosa succede dopo? Niente… tutto torna come prima!

Se vi ricorda qualcosa che sta succedendo anche oggi, se qualcuno vi ha raccontato o vi sta raccontando che bisogna cambiare tutto per stare meglio non stupitevi… siamo e saremo sempre più povera gente nelle mani di spregiudicate élite. E non cambia molto se oggi la “guerra” si combatte a Wall Street e non in trincea: le conseguenze sociali sono le stesse, miseria e povertà per molti, ricchezza e privilegi per pochi.
E il Free State of Jones resta una lontana utopia cancellata dalla storia.

Free State of Jones
Regia: Gary Ross
Con: Matthew McConaughey, Gugu Mbatha Raw, Mahershala Ali, Keri Russell, Brian Lee Franklin, Donald Watkins, Christopher Berry, Sean Bridgers, Bill Tangradi.
Durata: 139 min.
Produzione: USA, 2016

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Alessio Turazza

Consulente nel settore cinema e home entertainment, collabora con diverse aziende del settore. Ha lavorato come marketing manager editoriale per Arnoldo Mondadori Editore, Medusa Film e Warner Bros.

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