Rifarsi un nome: l’America della caccia alle streghe

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Bryan Cranston, protagonista di popolarissime serie televisive come “Breaking Bad” e “Malcolm”, porta magistralmente sullo schermo una figura non troppo nota della Hollywood del Dopoguerra: Dalton Trumbo. In un film divertente e potentemente metacinematografico che è soprattutto una riflessione sul fragile equilibrio tra democrazia e libertà.
Bryan Cranston in “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”, nelle sale italiane a febbraio.

Sarebbe riduttivo considerare Trumbo, la pellicola diretta da Jay Roach appena uscito nelle sale americane, soltanto come un film biografico, la ricostruzione di una parte consistente della vita di un attivista politico e prolifico sceneggiatore hollywoodiano entrato nella storia del cinema per film celeberrimi come Vacanze romane di William Wyler e Spartacus di Stanley Kubrick.
Sin dalla didascalia di apertura, che sinteticamente ricorda come la crisi del ’29 prima, l’alleanza con la Russia sovietica poi, furono le due molle principali che indussero molti americani a maturare idee socialiste e in alcuni casi a iscriversi al Partito Comunista, il film è, soprattutto, una ricostruzione di quell’esecrando fenomeno del Dopoguerra statunitense che fu la cosiddetta “caccia alle streghe”.
Il film è, soprattutto, una ricostruzione di quell’esecrando fenomeno del Dopoguerra statunitense che fu la cosiddetta “caccia alle streghe”, corrispettivo dell’ostracismo ateniese del V secolo.Fenomeno che per certi versi rappresenta un corrispettivo moderno di atteggiamenti persecutori tanto antichi quanto è antica la democrazia: basti pensare all’istituzione dell’ostracismo nell’Atene del V secolo. A cambiare sono il supporto (stampa e televisione al posto dei frammenti di ceramica detti òstraka) e la pena comminata (il licenziamento, l’esclusione da ogni attività produttiva e una sorta di damnatio memoriae mediale al posto dell’esilio), ma sia le dinamiche che gli effetti presentano inquietanti similitudini.

A dare il volto a Dalton Trumbo è Bryan Cranston, attore celeberrimo per le popolari serie televisive Breaking Bad e Malcolm, che porta sullo schermo la figura di un intellettuale eccentrico e sornione, svagato e ironico, profondamente leale con amici e colleghi ma ossessionato dal suo lavoro, che svolge preferibilmente nella vasca da bagno, la macchina da scrivere poggiata su un’asse di legno, un bicchiere di whisky a portata di mano e un bocchino d’avorio serrato tra i denti.
Trumbo è già una rotella importante nel ben oliato meccanismo dell’industria cinematografica quando, a guerra conclusa, l’isteria del “pericolo rosso” contagia a tutti i livelli la società americana. In quanto attivista politico e membro del Partito Comunista – a registered Communist– lo sceneggiatore si trova al centro della feroce campagna accusatoria condotta dalla Motion Picture Alliance for the Preservation of America Idealsthe Duke John Wayne (interpretato da uno statuario David James Elliot) e la stravagante, ma implacabile e potentissima, scrittrice di gossip Hedda Hopper (la sempre impeccabile Helen Mirren).
Incluso nel cosiddetto Hollywood Ten, Trumbo si rifiuta di fare nomi ed è condannato, nel 1950, a un anno di prigione con l’accusa di aver ostacolato i lavori del Congresso.Trumbo viene così incluso nel cosiddetto Hollywood Ten, il gruppo di personalità del mondo cinematografico chiamate nel 1947 davanti alla Commissione per le attività anti-americane per dar conto del loro credo politico e soprattutto denunciare nomi di colleghi scarsamente patriottici ovvero sovversivi.
Appellandosi al diritto, protetto dalla Costituzione, di riunirsi pacificamente per discutere e scambiare idee, Trumbosi rifiuta di fare nomi. Viene pertanto condannato, nel 1950, a un anno di prigione con l’accusa di aver ostacolato i lavori del Congresso, ma soprattutto il suo nome figura nella lista nera delle personalità del mondo del cinema considerate come una minaccia per lo stile di vita americano.

Scritto non più su un òstrakon, su un frammento di coccio, come accadeva nell’antichità, ma su tutti i giornali, le riviste, gli schermi televisivi, è a questo punto che il nome Trumbo diventa una parola impronunciabile, spregevole, sinonimo di traditore e nemico dell’America. Per continuare a lavorare, lo sceneggiatore si trova pertanto costretto, letteralmente, a perdere il proprio nome e a inventarsene molti altri. Sprofondato nella vasca da bagno con la sola compagnia di macchina da scrivere, whisky e sigaretta, per tutti gli anni Cinquanta Trumbo lavora sotto pseudonimo, anzi sotto una miriade di pseudonimi, per conto dei fratelli Frank e Per continuare a lavorare, lo sceneggiatore si trova pertanto costretto, letteralmente, a perdere il proprio nome e a inventarsene molti altri.Maurice King, produttori di B-Movies scombinati ma caparbi che realizzano pellicole a basso costo e rigorosamente di genere (nei panni di Frank, John Goodman regala un’interpretazione degna dei film dei Coen).
Insomma, come Cranston ricorda in una battuta memorabile, «the blacklist is alive and well, and so is the blackmarket» («la lista nera è viva e in salute, e così pure il mercato nero»). Dalla gran messe di queste scritture prezzolate, molte delle quali di bassa qualità, emergono alcune perle rimaste nella memoria dei cinefili, a partire da Gun Crazy (1950, da noi La sanguinaria), uno dei film di culto di Martin Scorsese.
Per il giro più grande poi Trumbo inventa alcune storie di cui indovina immediatamente il potenziale commerciale, pur sapendo che potrà goderne i frutti solo in maniera clandestina. E infatti, l’Oscar vinto da Vacanze romane (1953) per il miglior soggetto verrà attribuito a un prestanome, Ian McLellan Hunter, mentre quello per La più grande corrida (1956) a un fantomatico Mr. Robert Rich, nome de plume non privo di amara ironia.
Solo nel 1960, quando l’America volta pagina chiudendo la stagione della caccia alle streghe, le cose iniziano a cambiare.Solo nel 1960, quando l’America volta pagina chiudendo la stagione della caccia alle streghe, le cose iniziano a cambiare. Alla porta di Trumbo busseranno allora sia Otto Preminger (Christian Berkel), deciso a collaborare con lui per la trasposizione cinematografica di Exodus, sia Kirk Douglas (un Dean O’Gorman mimetico fin nella fossetta sul mento), che lo vuole nella squadra di Spartacus. Lo sceneggiatore può a questo punto riprendere a lavorare alla luce del sole, recuperando il proprio ruolo all’interno degli studios (lui stesso e la vedova Cleo saranno poi anche risarciti dei riconoscimenti perduti, a partire dai due Oscar).

Dalton Trumbo nel maggio del 1971 a Cannes – AFP/Getty Images.

Al di là dei suoi gradevoli e talora spassosi momenti di commedia, Trumbo dovrebbe prima di tutto essere letto come la storia di un uomo che, letteralmente, ha dovuto lungamente lottare e soffrire per rifarsi un nome, per tornare cioè a poter firmare le proprie opere e, più in generale, per vedere nuovamente affermata e riconosciuta la propria dignità di individuo. Esemplare in tal senso il rapporto dello sceneggiatore con una vecchia e non più luminosa stella del grande schermo come Edward G. Robinson (interpretato da Michael Stuhlbarg, uno dei volti della scorsesiana serie Walkboard Empire), il quale durante gli anni Cinquanta, stanco e spaventato, non regge alla pressione dei media e finisce per rinnegare davanti alla Commissione per le attività anti-americane molte delle sue idee e dei suoi amici pur di scampare alla blacklist.
Trumbo dovrebbe prima di tutto essere letto come la storia di un uomo che, letteralmente, ha dovuto lungamente lottare e soffrire per rifarsi un nome.Quando più tardi Trumbo, in un dialogo particolarmente drammatico, rammenta a Robinson la sua debolezza, questi si difende ricordando all’amico che un attore, a differenza di uno scrittore, non può lavorare sotto falso nome, dal momento che il suo mestiere coincide con la sua faccia, non con la sua penna. La scena è costruita molto bene perché non sottende alcun giudizio morale, non implica cioè una qualche superiorità del risoluto Trumbo sul debole Robinson: al contrario, rivela la natura profondamente oscena del potere, tanto più oscena quanto più, in un contesto che si dichiara democratico, prende a pretesto la difesa della libertà per mortificare ogni libertà, e in nome dell’amore per i diritti degli individui, priva gli individui dei loro diritti. E della loro faccia, e del loro nome.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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