Legami senza memoria

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Almeno a un primo sguardo, ci si può fondatamente chiedere cosa ci faccia Lettere di uno sconosciuto tra le opere di Zhang Yimou, specialmente dopo la serie di film notevoli che hanno decretato il successo internazionale del regista cinese.

Il film potrebbe sembrare un passo indietro rispetto agli altri suoi lavori. Infatti, per limitarsi a qualche esempio, esso non ha la qualità dei costumi de La città proibita (2006), né l’intensità epica di Hero (2002), né quella In Lettere da uno sconosciuto tutto ciò che manca vuole essere un indizio che guida verso ciò di cui si parla davvero. tragica de La foresta dei pugnali volanti (2004); non ritroviamo lo scavo psicologico de I fiori della guerra (2011); dei tratti tipici delle sue opere migliori mancano il ritmo sognante, le coreografie spettacolari, la fotografia. Quanto agli attori, a cominciare da Gong Li, a giudizio di molti non sono stati all’altezza.
C’è chi ha cercato di salvare la pellicola parlando di un’opera di sperimentazione; a me invece pare che si tratti di un film importante, in cui tutto ciò che manca vuole essere un indizio che guida verso ciò di cui si parla davvero.

Prima di continuare a riflettere sui contenuti, riprendo in breve la vicenda, tacendo sul finale, che pure meriterebbe un lungo discorso.
Lu Yanshi (Dao Ming Chen) viene incarcerato durante la rivoluzione culturale; fuggito dalla prigione dopo dieci anni, cerca di rivedere la moglie, Feng, e la figlia, che aveva visto l’ultima volta quando lei aveva tre anni. Un piano rischioso, per l’alta probabilità che lo catturino. Ed è, del resto, proprio la figlia, Dan Dan, a tradirlo, plagiata dal regime che fa pressione su di lei e la spinge a odiare il padre: su indicazione del commissario politico, la compagnia di ballo di cui fa parte le nega, perché figlia di un dissidente, il ruolo da protagonista che meriterebbe. Peraltro, per lei Lu è un padre assente, da cui si sente abbandonata. Il tradimento della figlia costerà a Lu altri anni di prigionia.
Il film narra le drammatiche vicende di una famiglia nella Cina della rivoluzione culturale. Finita la rivoluzione culturale, egli fa finalmente ritorno a casa. Vi trova la sola moglie che, affetta da una patologia della memoria, non lo riconosce più. Ella attende con tutta se stessa il ritorno del marito, ma quando questi le si presenta innanzi, non sa identificarlo e non accetta né quello che lui le dice, né le testimonianze degli altri in suo favore. Feng resta cocciutamente in un’attesa costante e vibrante del marito, di un marito che pure è tornato, ma senza che lei se ne renda conto. Quanto alla figlia, Dan Dan, era stata cacciata di casa per aver tradito il padre e ha rinunciato alla danza.
Fin qui la prima parte del film, cui segue il lungo sforzo di Lu che cerca di riunire la famiglia e, soprattutto, di stare a fianco alla moglie, escogitando infiniti espedienti per farle tornare la memoria.

Il film è la storia di un paradosso: presenta il dramma di una riunione familiare tanto desiderata eppure sostanzialmente mancata proprio mentre e perché si realizza.
Tutto, nel film, cerca di attirare attenzione su questo.
L’opera, infatti, non mira al “palato” dello spettatore con raffinate scenografie, con la fotografia o con i costumi, né vuole trattare di una grande vicenda esemplare: si tratta, anzi, di una piccolo caso familiare, cui il popolo fa da mera cornice.
Il momento psicologico, pure essenziale, non pare la vera questione in campo e il film, pure drammatico, non solo non indulge nel melodramma e presenta il dolore con toni dimessi, ma in più rinuncia alla poesia, anche quando avrebbe potuto con facilità farne di alta.
Nemmeno la lettura politica aiuta, perché pur essendo chiara la denuncia dell’ideologia, essa non tiene la scena.
Detto in positivo: al centro della storia, a mio parere, vi è il dramma del legame sociale che permane nonostante che la memoria di uno dei congiunti venga meno. Si scopre così una nuova forma di eroismo: l’eroismo della fedeltà, tanto grande che il protagonista è disposto a mettere in discussione la sua stessa identità. Per essere fedele al legame, egli si ritrova a cercare se stesso. Mentre il regime vuol negare la sua identità, in nome di un’appartenenza ideologica che egli rifiuta, Lu rinuncia per amore alla sua identità di marito e persino alla sua identità personale, pur di stare a fianco della donna che ama e che lo ama anche mentre e forse ancor più perché lo rifiuta.
Un dramma che nasce dalle vicende narrate e che però assume un valore universale.

Per la filosofia sociale, il film è un exemplum mirabile: la storia mostra come, per il darsi del legame sociale, la memoria dei congiunti non sia essenziale, anche se il suo venire meno può rendere difficilissimo il protrarsi della relazione e, in generale, condizionarne lo sviluppo.
In questo senso, non sono completamente d’accordo con la lettura di Roberto Mordacci, che pare identificare nel riconoscimento (e nel disconoscimento) il motivo profondo del film:

Tutta la storia del film è costellata di disconoscimenti: anzitutto, è Lu a disconoscere la validità della rivoluzione culturale, dando origine a tutte le disgrazie della famiglia; è quasi per contrappasso, dunque, che la figlia Dan Dan disconosce il padre, procurando la sua cattura dopo la fuga; in conseguenza di questo Feng prima disconosce pubblicamente e consapevolmente la figlia allontanandola da casa, e poi inconsapevolmente rimuove il marito dalla memoria, rendendosi incapace di riconoscerlo.
La cosa potrebbe fermarsi qui, in una sorta di tragedia del disconoscimento, e invece Zhang Yimou proprio da qui parte per mostrare come Lu riesca ad attivare una dialettica contraria, tenace e paradossalmente vincente.
(R. Mordacci, Al cinema con il filosofo, Mondadori, Milano 2015, p. 73)

Certo, disconoscimento e riconoscimento sono essenziali; essi non sono però il motore della storia, né ciò di cui essa parla, quanto piuttosto i nodi inevitabili di passaggio attraverso cui essa si svolge. Essi sono infatti solo la conseguenza di scelte di legame, in positivo e in negativo: la contestazione della forma di legame istituito politicamente, ossia la rivoluzione culturale; il legame di Dan Dan col partito e il non legame col padre (almeno a 13 anni); il desiderio di rivedere la famiglia dopo dieci anni, il desiderio di ricostituzione della quotidianità del rapporto coniugale con la moglie, il desiderio che si ricostituisca il legame tra la moglie e la figlia.
Insomma, il film è un inno al legame famigliare, desiderato con perseveranza da tutti, spesso presente, persino a disposizione e non di meno tragicamente disconosciuto, eppure proprio per questo capace di fare di Lu un eroe drammatico.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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