Le montagne di Segantini, tra realtà e simbolo

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Breve ma intensa la vita del pittore Giovanni Segantini (Arco di Trento, 1858-  Monte Schafberg, Engadina, 1899), forse l’artista più complesso fra i pittori dell’Ottocento italiano di respiro “internazionale”.

Orfano di madre in giovanissima età, fu affidato alle cure (non troppo amorevoli) dei fratellastri che abitavano a Milano, dove condusse un’adolescenza inquieta e vagabonda, che lo avvicinò però al mondo dell’arte. Infatti nella città lombarda, mantenendosi con varie attività, frequentò i Corsi dell’Accademia di Brera (dove fu allievo di Giovanni Bertini), e nel corso del tempo si legò in amicizia con il pittore Emilio Longoni e con Vittore Grubicy, pittore anch’egli, ma soprattutto critico e mercante di grande attivismo e notevole “fiuto”. Si trasferì poi a Pusiano, sul lago già caro al Parini (e assai caro anche a chi scrive), e in altre località della Brianza, e quindi in Svizzera: prima nei Grigioni e poi a Maloggia, nell’amatissima Engadina, dove morì a soli 41 anni stroncato da un attacco di peritonite che gli era iniziato mentre dipingeva in alta montagna. Eh, sì, perché per lui la pittura non fu solo una passione o un “mestiere” che gli valse una progressiva affermazione e notorietà; ma fu un’esperienza totalizzante, dai contorni quasi mistico-religiosi, che si nutriva di suggestioni letterarie e filosofiche, e che trovò nel contatto quasi fisico con la maestosità delle Alpi il suo momento culminante.
Impossibile, dunque, per qualunque appassionato di pittura non visitare la mostra Segantini (a cura di Anne Paule Quinsac e Diana Segantini), aperta dal 18 settembre a Palazzo Reale di Milano, corredata da un lussuoso catalogo edito da Skira/Mazzotta.
Attraverso le 120 opere in mostra abbiamo qui una ricostruzione rigorosa del percorso artistico del Nostro, che – data la formazione lombarda – non poteva non muovere da quel realismo un po’ bozzettistico che lo avvicina a Emilio Gola o Mose Bianchi e all’esperienza della locale Scapigliatura. Per nostra fortuna però, si allontanò da quei modelli che – a mio modesto avviso – non lo portarono a grandi esiti pittorici, poiché evidentemente non li sentiva affini alla propria sensibilità. E ciò avvenne quando, per il tramite di Grubicy, vide (tra il 1883 e il 1886) alcune tavolette di Anton Mauve e lesse la monografia di Sensier su François Millet: è da allora che Segantini iniziò gradualmente a sviluppare la sua personalissima esperienza di Divisionismo pittorico. Esperienza che – alla luce di suggestioni di artisti “nordici” come Van Gogh o Munch, ma anche di echi “secessionisti” o di “sentito dire” preraffaellita – lo vide transitare verso un simbolismo che pure non rifiutava, anzi inglobava e sublimava, la nozione ottocentesca di realismo. Gli “umili” pastori che con le loro pecore popolano i suoi quadri, o le mucche teneramente accudite dalle donne nelle loro stalle, rappresentano quindi – da un lato – un omaggio alla tradizione della pittura contadina, dall’altro diventano protagonisti di una ricerca di osmosi quasi “panica” con la natura che sta loro intorno: con le vette innevate, con i pascoli verdi, con i cieli azzurri o nuvolosi che siano.
Gli umili pastori, le mucche teneramente accudite, omaggio alla tradizione della pittura contadina, diventano protagonisti di un’osmosi “panica” con la natura, con le vette innevate, con i pascoli verdi, con i cieli azzurri o nuvolosi che siano.
E non vi è dubbio che la sezione “Natura e simbolo” di questa mostra – a propria volta articolata in varie sotto-sezioni – è quella che contiene dipinti tra i più famosi del maestro trentino: tra questi il commovente Ave Maria a trasbordo (in varie versioni) e i forse ancor più celebri Mezzogiorno sulle Alpi e Ritorno dal bosco, come pure quella Raffigurazione della primavera che nel 1999 – in un’asta newyorkese – sfiorò i dieci milioni di dollari (avete letto bene eh, non è un errore…). Qui la natura, dipinta con la pennellata lunga e i consueti colori freddi, ci appare davvero come quella “foresta di simboli” che Baudelaire aveva teorizzato. Simboli misteriosi ma affascinanti, che invitano lo spettatore a perdersi e confondersi davanti ai quadri di Segantini; e a sentire davvero, mentre li ammira, il calore del sole o il freddo della neve.

  • Mezzogiorno sulle Alpi, 1891Mezzogiorno sulle Alpi, 1891, olio su tela, St. Moritz, Museo Segantini, Deposito della Fondazione Otto Fischbacher – Giovanni Segantini
  • Ritorno dal bosco, 1890Ritorno dal bosco, 1890, olio su tela, St. Moritz, Museo Segantini, Deposito della Fondazione Otto Fischbacher – Giovanni Segantin
  • Ave Maria a Trasbordo, 1886 Ave Maria a Trasbordo, 1886, olio su tela, St. Moritz, Museo Segantini, Deposito della Fondazione Otto Fischbacher – Giovanni Segantini
  • Le due madri, 1889Le due madri, 1889, olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna
  • La raffigurazione della primavera, 1897La raffigurazione della primavera, 1897, olio su tela, New York, French and Company

Non dobbiamo inoltre dimenticare come la nascita della vita e l’amore (ad esempio in L’amore fonte della vita e L’angelo della vita) e la maternità (nelle varie Due madri, ma non solo) siano tematiche che appaiono spesso nelle sue opere, e come – soprattutto nella fase finale della sua produzione – queste assumano una dimensione quasi di ossessione, di allucinazione: complici, forse, letture come le opere di Nietzsche o le suggestioni della cultura indiana.
Concluderò ora questa mia breve nota con un addendum letterario. Come dicevo, il pittore divenne celebre, affermato e richiestissimo, anche se dilapidò in fretta i suoi guadagni. Quando morì, dunque, l’eco dell’evento nella pubblica opinione fu rilevante, tanto da giustificare un vero e proprio epicedio da parte dal poeta per eccellenza di quegli anni, Gabriele D’Annunzio, che lo pubblicò sul “Marzocco” dell’8 ottobre 1899. Non è certo privo di enfasi retorica, questo componimento, anzi… Eppure se guardiamo la data della sua stesura non possiamo non ricordare come questo sia proprio il periodo della composizione delle liriche di Alcyone e dunque del cosiddetto “naturalismo panico” dannunziano. Insomma, mentre D’Annunzio si confondeva e immedesimava col paesaggio marino della Versilia “in compagnia di Ermione”, immaginò – con buona ragione – un Segantini che facesse altrettanto davanti ai monti, alla laude impetuosa dei torrenti, al fremito delle cime percosse dalla meraviglia; e ipotizzò dunque per il pittore appena scomparso un’esperienza “panica” nella quale tutte le cose furono come una sola cosa  / abbracciata per sempre dalla sua silenziosa / potenza come dall’aria. Pertanto il Vate non solo – come spesso gli capitava – confondeva la vita con l’arte, ma in questo caso mescolava anche la vita (e la morte…) degli altri con la propria.
Propongo dunque ai lettori della Ricerca, per opportuna completezza, il testo integrale del compianto:

Per la morte di Giovanni Segantini

Implorazione dei monti, voci del regno alto e santo,
dolor selvaggio dei vènti combattuti, profondo pianto
delle sorgenti pure,
quando l’ombra discesa da un più alto regno benda
la rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un cammino che attenda 
grandi orme venture!
Salutazione dei monti, coro delle gioie prime,
laude impetuosa dei torrenti, fremito delle cime
percosse dalla meraviglia,
quando si fa la luce nelle vene della pietra 
come nelle fibre del fiore perché Demetra
rivede la sua figlia!
Dominazione dei monti, purità delle cose intatte,
forza generatrice delle fiumane pròvvide e delle schiatte
armate per l’eterna guerra, 
mistero delle più remote origini quando un pensiero
divino abitava le fronti emerse dai mari! O mistero,
purità, forza sopra la Terra!
Spenti son gli occhi umili e degni ove s’accolse l’infinita
bellezza, partita è l’anima ove l’ombra e la luce la vita 
e la morte furon come una sola
preghiera, e la melodia del ruscello e il mugghio dell’armento e il tuono
della tempesta e il grido dell’aquila e il gemito dell’uomo
furon come una sola parola,
e tutte le cose furono come una sola cosa 
abbracciata per sempre dalla sua silenziosa
potenza come dall’aria.
Partita è su i venti ebra di libertà l’anima dolce e rude
di colui che cercava una patria nelle altezze più nude
sempre più solitaria. 
O monti, purità delle cose intatte, forza, mistero
sopra la Terra, ella va e ritorna come un pensiero
immortale sopra la Terra.
O monti, o culmini, il suo dolore fu come la vostra ombra
sopra la Terra. La sua gioia sarà oltre la sua tomba
un palpito della Terra.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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