Satira e architettura, ovvero la modernità alla berlina

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Esce per i tipi di Quodlibet un elegante volume di Gabriele Neri che ricostruisce i rapporti tra satira e architettura dalla metà dell’Ottocento a oggi. Dal «Punch» ai Simpson e «Topolino», vignette e caricature ci parlano non solo del controverso statuto della modernità, ma anche dell’ambigua natura del genere satirico.
La cover del volume, edito da Quodlibet

Il discrimine che divide, all’interno del genere satirico, l’irriverenza nei confronti del potere dall’irrisione conservatrice e fondamentalmente reazionaria è talora sottile, talatra decisamente marcato e facilmente riconoscibile. A questo si aggiunga il fatto che la satira, e lo si vede bene nella realtà mediatica dei nostri giorni, raramente controlla i propri effetti, per cui facilmente ciò che nasce come atto censorio, anche violento, può facilmente rovesciarsi in perfetto veicolo di notorietà e persino di pubblicità.La satira, e lo si vede bene nella realtà mediatica dei nostri giorni, raramente controlla i propri effetti.Lo mostra molto bene il volume di Gabriele Neri Caricature architettoniche. Satira e critica del progetto moderno (Macerata, Quodlibet, 2015), saggio che affronta con acume e dovizia iconografica il rapporto tra architettura e società dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, passando in rassegna e analizzando immagini satiriche tratte da giornali, riviste, fumetti, cartoni animati e film.

Buckminster Fuller – francobollo commemorativo del 2003

Il volume si articola in cinque capitoli, i primi due centrati sui singoli edifici, il terzo e il quarto sulla progettazione urbanistica, mentre il conclusivo è consacrato all’immagine dell’architetto.
Nei paragrafi iniziali Neri tratta del modo in cui disegnatori e vignettisti si sono presi gioco di alcune costruzioni atterrate come extraterrestri nelle grandi capitali mondiali, per poi ergersi a simboli di un’intera città se non di un’intera epoca: dal Crystal Palace di Paxton, a Londra, al Guggenheim di Wright, a New York, fino alla Sydney Opera House di Utzon.
Il disegno caricaturale può facilmente diventare strumento per la trasformazione di un progetto edilizio in marchio riconoscibile, in emblema o icona destinata a riscuotere un successo planetario.Osteggiate da più fronti, queste opere totalmente aliene rispetto al paesaggio circostante sono poi divenute nel corso del tempo paradigmatici modelli monumentali dell’arte moderna. La loro consacrazione deve molto a quelle stesse vignette satiriche che erano state disegnate per combatterle: si pensi ad esempio al Teatro dell’Opera di Sydney, con i suoi inconfondibili gusci a sezione sferica che ricordano vele di barche in navigazione. In questo caso, come nota Neri, si vede bene come «la riduzione di un’architettura in caricatura, fatta di poche linee medianti le quali vengono riassunte ed esasperate le sue caratteristiche essenziali», rappresenti «uno dei primi momenti del passaggio da “semplice” edilizia a simbolo collettivo» (p. 57).
Il disegno caricaturale, insomma, può facilmente diventare strumento per la trasformazione di un progetto edilizio in marchio riconoscibile, in emblema o icona destinata a riscuotere un successo planetario. Mentre l’edificio reale diventa sempre più un fondale neutro destinato a ospitare – e in certa misura magnificare – i riti e le consuetudini della vita moderna, il logo che bidimensionalmente lo riepiloga perde i suoi attributi satirici diventando un’immagine indefinitamente consumabile di per sé.

Disegno degli studenti di architettura di Sidney per l’inaugurazione dell’Opera House nel 1973

Particolarmente interessante risulta poi il secondo capitolo, dedicato alle varie tipologie abitative sviluppatesi nel corso del Ventesimo secolo.
L’invettiva satirica contro alcuni elementi inconfondibili dell’architettura e del design di primo Novecento come i progetti per ottimizzare lo spazio abitativo e combattere il gusto borghese per l’ornamento – case “razionali”, case di vetro, case prefabbricate – ben dimostrano come il disorientamento della società nei confronti delle trasformazioni architettoniche rifletta la distanza tra utopie e realtà concrete, ma anche la natura regressiva dei media che attraverso la sintesi caricaturale da un lato combattono battaglie di retroguardia estetica, difendendo aprioristicamente il linguaggio architettonico classico, dall’altro consolidano pregiudizi a buon mercato facendo leva su paure e disagi diffusi Il disorientamento della società nei confronti delle trasformazioni architettoniche riflette la distanza tra utopie e realtà concrete.(esemplari in tal senso le critiche da destra al movimento razionalista).
D’altro canto la reazione alla natura invadente della modernità, giunta a snaturare i secolari comportamenti domestici di generazioni di europei, ad esempio negando loro il diritto alla privacy o imponendo un funzionalismo sin troppo arido, riflette un’istintiva eppure giustificata diffidenza nei confronti della tendenza disumanizzante del moderno, dove il modello taylorista della fabbrica cerca di influenzare e trasformare ogni aspetto della vita quotidiana senza alcuno scrupolo né attenzione per le necessità pratiche degli individui.
La caricatura può in tal senso funzionare da contravveleno per campagne mediatiche fortemente orientate a imporre precisi prodotti industriali. Esemplari in tal senso le vignette sulla cultura della prefabbricazione in voga negli Stati Uniti dopo il 1945 – abitazioni-bunker come il Quonset Hut, edifici modulari impiegati dapprima negli scenari bellici e da qui trasportati nella “vita in tempo di pace” – o un film come Playtime di Jacques Tati, nel quale lo spazio asettico e “igienizzato” del moderno diventa sintomo e simbolo dell’alienazione contemporanea.

I due capitoli sulle polemiche urbanistiche si presentano poi ricchi di materiali iconografici particolarmente significativi.
Nel primo si analizza la doppia lotta condotta da i redattori de «Il Selvaggio», la celebre rivista di Mino Maccari e Leo Longanesi, da un lato contro la Roma piacentiniana con la sua grandeur tanto retorica e vuotamente tronfia quanto povera di idee, dall’altro contro l’imperante moda razionalista. Come Neri giustamente mostra, quella del giornale satirico toscano (poi torinese e infine romano) è una battaglia in difesa Quella de «Il Selvaggio» è una battaglia in difesa del paesaggio italiano che, pur condotta con intelligenza e impareggiabile gusto grafico, non è meno di retroguardia.del paesaggio italiano che, pur condotta con intelligenza e impareggiabile gusto grafico, non è meno di retroguardia date le deboli e discutibili premesse su cui si fonda (difesa dell’idea di “strapaese”, empito autarchico muscolare ma dal fiato assai corto, predilezione per lo sberleffo e l’irrisione più che per una vera pointe satirica).
Seguono poi alcune brevi pagine sulla Parigi della ristrutturazione haussmaniana e sulle città americane, New York in particolare, agli inizi del Novecento, ovvero nel periodo dell’invasione dei grattacieli – proprio a proposito di New York, sarebbe stato apprezzabile un paragrafo sugli sventramenti di alcuni quartieri operati da Robert Moses negli anni del Dopoguerra, ferita ancora sanguinante per gli abitanti della città (per quelli del Bronx in particolare) e per decenni argomento di dure battaglie politiche, giornalistiche nonché satiriche.

Chiude il libro una rapida ma evocativa rassegna di caricature ad personam di celebri architetti, immagini che evidenziano due stereotipi abbastanza diffusi nel modo di rappresentare le archistar del presente o del passato, ora dipinte come artisti capricciosi e istintivi – e anche qui, come facilmente s’immagina, emerge forte il dato del luogo comune e del pregiudizio – ora come freddi e distaccati ingegneri. Uno degli stilemi del ritratto caricaturale dell’architetto, ovvero la sovrapposizione dell’uomo con l’opera – per cui, poniamo, Buckminster Fuller è rappresentato come una testa a forma di cupola geodetica – conferma quanto detto a proposito della capacità del disegno satirico di ridurre Chiude il libro una rapida ma evocativa rassegna di caricature ad personam di celebri architetti.una figura a logo bidimensionale: fuso con i suoi edifici, l’architetto diventa icona, emblema, e la sua caricatura un modo di veicolare e imporre commercialmente tale personalità-marchio.
Se ha ragione Gabriele Neri nel sostenere che «per amare veramente l’architettura bisogna essere capaci di non prenderla troppo sul serio» (p. 292), è altrettanto vero che per comprendere pienamente la satira occorre sempre prenderla sul serio, sforzandosi di capire quando fa il suo mestiere iconoclasta e quando invece diventa stampella del potere.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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